Vent’anni di coop sociali. A che punto siamo?
Vent’anni di coop sociali. A che punto siamo?

L’8 novembre del 1991 è una data storica per la cooperazione sociale italiana. Il Parlamento varò la legge fondamentale che legittima, regola, disciplina e definisce ruolo e funzioni delle cooperative sociali in Italia. Segue …

Che fosse una legge importante, lo si sapeva fin da allora. Come sia stata attuata, è valutazione odierna, dopo vent’anni. E infatti la Legacoopsociali e l’Agci (Associazione generale delle cooperative italiane) hanno dedicato un’intera giornata di riflessione sul tema dell’applicazione della legge 381 del 1991.

Una giornata poco retorica e poco celebrativa, e assai impegnativa proprio sul piano degli interventi che si sono alternati in una sala romana, alla presenza di centinaia di cooperatori provenienti da ogni parte d’Italia.

Intanto, il titolo della giornata era "La nuova Italia è sociale", un titolo che esprimeva fin da subito il carattere di funzione pubblica svolto dalla maggior parte delle cooperative sociali. Poi, la citazione ricorrente dell’articolo 1 della legge 381, forniva senso e legittimazione alle cooperative sociali. Lo riportiamo, perché, in effetti, si tratta di una norma di grande civiltà giuridica: "le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, attraverso: a. la gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi; b. lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali, o di servizi – finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate". Come si vede, c’è un senso generale, una sorta di missione pubblica, delle cooperative sociali legato all’interesse generale della comunità, e una differenziazione per tipologia, da una parte la gestione di attività produttive, dall’altra, l’inserimento nel mondo del lavoro delle persone svantaggiate. Dato il valore alto della legge istitutiva, nella concretezza della quotidianità, come si sono comportate le cooperative sociali in questi venti anni, e soprattutto quale è stato il rapporto con le amministrazioni pubbliche di ogni livello? La risposta è nell’articolazione stessa degli interventi della giornata, coordinati da David Riondino.

Con considerazioni pregnanti e provocazioni interessanti, i presidenti delle rispettive associazioni delle cooperative, Paola Menetti per Legacoopsociali e Eugenio De Crescenzo per Agci, hanno aperto la giornata. Il tema di fondo delle due introduzioni era sostanzialmente il medesimo: la civiltà giuridica della legge si scontra con la fatica quotidiana di chi opera per la cura delle persone in ambito cooperativo. Si tratta di centinaia di migliaia di operatori e di operatrici, di qualche milione di assistiti, e di una decina di migliaia di cooperative. Come si vede, una realtà notevole e importante, alla quale tuttavia, molte amministrazioni pubbliche sembrano non attribuire il peso sociale che meritano. Se si snocciolano i campi di intervento delle cooperative sociali, si ha il quadro del welfare italiano (gli altri paesi europei non hanno esperienza di cooperazione sociale). Le sfere di intervento vanno dallo svantaggio fisico alle difficoltà psicologiche delle persone, dai ragazzi di Scampia a coloro che in Calabria, Campania e Sicilia gestiscono i beni confiscati alle mafie, dall’invenzione di nuove forme di lavoro sociale a nuovi modelli educativi per i minori in difficoltà. Dinanzi a tutto questo impegno, c’è la fatica quotidiana, il gravoso fardello dei bilanci. I pagamenti delle amministrazioni pubbliche hanno ormai medie di durata bibliche. Vi sono casi di attese fino a due anni e mezzo per il pagamento di fatture in alcuni comuni italiani. E nel frattempo, la scure di Tremonti ha azzerato i fondi per la non autosufficienza, per l’assistenza alle persone disabili e in generale allo stato sociale garantito dalle prestazioni delle cooperative sociali e del terzo settore. Come si è giunti a questo punto?

I cooperatori sociali hanno chiesto al professor Aldo Schiavone, di illustrarlo in una vera e propria lezione magistrale su questi vent’anni. In sostanza, l’analisi di Schiavone si regge su due pilastri: l’ideologia prevalente tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila tende a nascondere il disagio sociale e a convincerci che la misura del benessere sia in realtà il consumo, la circolazione del denaro, la proprietà delle cose e dei beni. Essa relega la solidarietà ai margini delle dinamiche sociali, non più come elemento costitutivo di una comunità, ma come gesto volontario e straordinario, magari in seguito a catastrofi naturali. Questa ideologia trasforma i cittadini dotati di diritti in utenti e consumatori. Il diritto di cittadinanza è direttamente proporzionale alla capacità di spesa, secondo questa ideologia, che il professor Schiavone non esita ad attribuire al blocco sociale che ha in Berlusconi il suo campione. E la naturale conseguenza di questa ideologia è la fine della politica, o meglio l’emergere non solo dell’antipolitica ma soprattutto all’impolitica. Il carattere politico della cura del disagio sociale, dunque, che è meritoria attività delle cooperative sociali, viene disinnescato da questa ideologia. Per questo, quando si decide di operare tagli alla spesa pubblica, si azzerano innanzitutto i costi sociali del disagio. Secondo il professor Schiavone, invece, la crisi economica ci consegna una diversa riflessione sul futuro, che tende a costruire nuove forme di capitalismo, una nuova attenzione alla sfera sociale, che diventa elemento fondativi delle attività pubbliche. Il professor Schiavone non ha esitato, in sostanza, a ritornare sul tema del bene comune, sulla riflessione centrale, per la politica e per gli intellettuali, che esso assume proprio in tema di bilancio pubblico. E ha chiuso sostenendo che in una società diversa, occorre trasformare i consumatori e gli utenti in cittadini dotati di diritti costituzionali.

Nel corso della giornata ha poi trovato notevole spazio il racconto della vita quotidiana delle cooperative sociali. Dall’Umbria alla Calabria, dalla Sicilia al Trentino alla Lombardia, gli operatori sociali delle coop maturano esperienze importanti e plurime nella cura del disagio sociale, inventandosi interventi, elaborando strategie, relazionandosi con le persone, ovvero, costruendo la loro funzione pubblica nelle comunità, che è quanto prescrive la legge 381. Come mai questo racconto non diventa oggetto di interesse nei media? Ha tentato di darne una spiegazione Giorgio Van Straten, del Consiglio di amministrazione della Rai. Dovrebbe essere missione del servizio pubblico aprire finestre informative che raccontino le esperienze maturate dalle cooperative nei territori. Invece, no. La Rai – come afferma lo stesso Van Straten – dedica mattine e pomeriggi alla cronaca nera, alla rappresentazione di un’Italia che tifa per il colpevole o per la vittima, come se questa fosse la sua vera missione, trasformasi in una sorta di rivista di cronaca nera. Van Straten ha manifestato l’impegno a trasformare i palinsesti Rai, a partire dalla necessità di una diversa qualità editoriale nel racconto di un’Italia diversa.

Altri interventi importanti si sono succeduti, dalla testimonianza di Giulio Scarpati a nome del sindacato attori, agli esponenti di spicco del Forum del Terzo settore, agli economisti Tiziano Treu e Stefano Zamagni (il quale ha rilanciato lo schema tripartito dell’economia pubblica, privata e civica, in cui centrale è la funzione della cooperazione sociale e del terzo settore), al direttore di Banca Etica. Tutti hanno concordato sulla centralità della cooperazione quale via d’uscita possibile nella ricostruzione dell’Italia dopo la crisi.

A Giuliano Poletti, presidente nazionale di Legacoop, è toccata invece una conclusione non rituale. Egli ha sostenuto che la cooperazione è certamente decisiva, ma presenta alcune ombre che vanno illuminate. In particolare, affermando uno schema autocritico, Poletti ha citato una sorta di limite della cooperazione di consumo, ad esempio. Se la missione della cooperazione è la costituzione di forme diverse di capitalismo, nessuno può pensare di essere immune da questo impegno. Soprattutto le coop di consumo. E qui, Poletti si è divertito ad illustrare il tema con un esempio illuminante. Se un socio acquista 50 padelle, la coop di consumo gli regala la cinquantunesima, come se cinquanta non gli bastassero già. E ciò non va bene, perché segue le logiche mercantili di altre aziende di consumo. Occorre invece lavorare per mettere in rete l’intera impalcatura della cooperazione. Proviamo a immaginare che il premio per il socio coop non sia la cinquantunesima padella, ma l’accesso a una cooperativa di dentisti o di baby sitter o di assistenti sociali. Ne acquisterebbero i soci in valore sociale, ma si tornerebbe allo spirito originario della cooperazione italiana. Ecco, lo spirito originario, il senso del lavoro nelle cooperative, la dimensione comunitaria, l’invenzione di diverse forme del capitalismo cooperativo: di tutto questo, ne siamo certi, si tornerà a parlare, dopo che lo tsunami politico ed economico ci costringerà a fare i conti con le macerie.

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