Riflessioni sulla produttività dell?economia italiana
Riflessioni sulla produttività dell?economia italiana

Un’opinione controcorrente sulle responsabilità della bassa produttività e competitività dell’economia italiana, formulata da due economisti per www.nelmerito.com .

La nostra tesi che i passati cambiamenti nel mercato del lavoro siano la causa prima della bassa dinamica della produttività italiana è veramente incompatibile con i dati sulla produttività apparente del capitale, come viene suggerito in un recente Rapporto della Banca d’Italia? A nostro avviso è vero l’esatto contrario: quei dati forniscono ulteriore conferma della correttezza della nostra analisi.  

Abbiamo più volte sostenuto, sulle pagine di nelMerito e in altre sedi, che l’insufficiente dinamica della produttività in Italia è stata prodotta dal combinato disposto della moderazione salariale (o meglio, della riduzione del prezzo del lavoro rispetto a quello del capitale), della maggiore "flessibilità" garantita dai nuovi contratti "atipici" e della disponibilità di forza lavoro immigrata. Questi "shock" nel mercato del lavoro hanno spinto le imprese verso l’occupazione a bassa specializzazione, disincentivando le imprese a ricercare miglioramenti della tecnica di produzione, della forma organizzativa e della formazione dei lavoratori, e favorendo l’investimento nell’ampliamento produttivo piuttosto nel cambiamento produttivo.

L’ultima rilevazione dell’ISTAT sulle forze di lavoro fornisce un’ulteriore conferma della persistenza di questa tendenza. Nel primo trimestre 2009 il numero di occupati subisce una diminuzione netta di 204.000 unità su base annua, per la caduta dell’occupazione autonoma (-163.000 unità), dell’occupazione a termine (-154.000 unità) e nella riduzione del numero dei collaboratori coordinati e continuativi e occasionali (-107.000 unità). E’ importante sottolineare che la riduzione netta è il frutto di una discesa di 426.000 unità (258.000 uomini e 168.000 donne) della componente italiana e di una crescita di 222.000 unità di quella straniera (96.000 uomini e 126.000 donne). L’ISTAT sottolinea che la crescita dei dipendenti a tempo indeterminato riguarda in particolare gli stranieri nelle professioni non qualificate e gli italiani con almeno 50 anni di età. Insomma, si allontanano i giovani collaboratori (o a termine) e si assumono i lavoratori più anziani e gli stranieri con bassa qualifica, a suggerire l’arroccamento della produzione nei settori dove la crescita della produttività è più lenta.

Gli economisti della Banca d’Italia affermano nel recente Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano

( http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qf_45/QEF_45.pdf)

che la tesi qui sostenuta è "ampiamente condivisa". Nella stessa sede (p. 47) si sottolinea però che il rallentamento dell’intensità di capitale nei processi produttivi, che risulta sia dal comportamento di impresa da noi rilevato sia dai dati, "è tuttavia difficilmente conciliabile con la parallela, consistente, riduzione della produttività apparente del capitale. Nel settore privato al netto delle locazioni dei fabbricati, il rapporto tra valore aggiunto e stock di capitale netto a prezzi costanti è sceso dell’8,6 per cento tra il 2000 e il 2007, dopo essere rimasto pressoché costante nel quinquennio precedente; la caduta è stata ancora più marcata nel settore manifatturiero". Il rapporto ricorda i problemi esistenti nella misurazione del capitale e suggerisce la possibilità che la ristrutturazione e l’internazionalizzazione delle imprese possano aver prodotto una sopravalutazione dello stock di capitale, una conseguente riduzione della sua produttività apparente e una sottostima della crescita della produttività totale dei fattori. Non riteniamo possibile accogliere questa interpretazione. La riduzione della produttività apparente del capitale sarebbe difficilmente conciliabile con la nostra tesi soltanto se la composizione dello stock di capitale fosse rimasta invariata nel periodo considerato. Solo in tal caso la caduta della produttività potrebbe infatti indicare un aumento dell’intensità di capitale. Qualora si fosse, invece, verificato quanto da noi sostenuto, ossia che al rallentamento del contributo offerto dal capitale per addetto (dotazione di capitale del lavoratore) si è associato uno spostamento di quella composizione a favore del capitale con più basso contenuto tecnologico (investimenti "estensivi" piuttosto che "innovativi"), e dunque con minore produttività, i due fenomeni sarebbero perfettamente conciliabili.

I più recenti dati disponibili (che si riferiscono alle imprese che operano nei settori dell’industria e dei servizi ad esclusione del comparto dell’intermediazione monetaria e finanziaria, e che sono rintracciabili sul sito dell’Istat) sembrano suggerire che le cose siano andate effettivamente come da noi ipotizzato. La figura mostra l’andamento del tasso di crescita del capitale in Italia, distinguendo anche tra capitale ICT e non ICT. I dati, a nostro avviso, parlano da soli. E’ proprio all’inizio di questo decennio, dal 2000 al 2003, che si assiste ad una caduta di circa sette punti del tasso di crescita del capitale ICT, che rimane successivamente in territorio negativo (ad indicare una riduzione dello stock di capitale ICT), mentre il tasso di crescita del capitale non ICT flette nello stesso periodo di circa un punto, per rimanere poi su valori intorno al 2 per cento (ad indicare un aumento dello stock di capitale non ICT).

 

La composizione dello stock di capitale si è dunque modificata sensibilmente in questo secolo, perché le imprese hanno reagito in modo individualmente razionale agli stimoli di policy e (forse) ad alcuni shock esogeni da questa non controllabili; agendo in tal modo hanno però sfavorito il capitale maggiormente tecnologico e abbattuto la produttività effettiva, non solo quella apparente. Purtroppo. (17 luglio 2009).

 

Di Giuseppe Ciccarone, Enrico Saltari su www.nelmerito.com

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