Dopo l’analisi, le proposte. La proposta di riforma delle politiche sociali redatta da un gruppo di studiosi e presentata dall’Irs tocca tutti i punti nevralgici del welfare. Segue …
Si parte dal decentramento, con “l’urgenza di portare sul territorio non solo l’attuazione, ma anche la progettazione degli interventi attivati e delle prestazioni erogate”. Non solo, si evidenzia la necessità di decentrare almeno in buona parte le prestazioni monetarie. La necessità di ridurre le erogazioni monetarie a favore dell’offerta dei servizi (vedi lancio precedente), caratterizzata da un “universalismo selettivo sull’entità del bisogno”, viene individuata in funzione di una messa a disposizione di regioni e comuni di funzioni e risorse che potranno essere oggetto di legislazione regionale innovativa, con un’offerta per il beneficiario che consista in un mix ottimale tra prestazione monetaria e prestazione di servizi.
Determinazione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni). “Quanto più le politiche sociali e le risorse per attuarle vengono decentrate, tanto più acquista rilevanza l’art.117 della Costituzione, che stabilisce che vengano determinati i ‘livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale’”. Lo sviluppo delle politiche di welfare implica che vengano definiti: quali bisogni vengano considerati rilevanti dalle amministrazioni pubbliche, chi ne sono i portatori, quali opportunità vengono loro offerte, come ne viene garantita la esigibilità s tutti i cittadini.
Isee. La proposta individua l’inserimento di correttivi per la determinazione dell’Isee. Se l’universalismo selettivo diventa cruciale, come sottolineato da Ranci Ortigosa, l’Isee assume un valore fondamentale. “Bisogna concentrare le risorse laddove c’è il bisogno”. I limiti attuali sono: inadeguata flessibilità dello strumento rispetto ai diversi usi; utilizzo dei valori catastali, al posto di quelli di mercato, per la determinazione del patrimonio immobiliare, con conseguente sottovalutazione; non considerazione del sostegno al bisogno familiare per il quale viene calcolato; lentezza nel registrare i cambiamenti economici del nucleo familiare.
La proposta di sofferma poi sui passaggi necessari per il trasferimento delle funzioni a regioni e enti locali, e si sofferma sugli attuali modelli produttivi del welfare italiano. Tre sono i modelli: attraverso aziende o enti pubblici (salute mentale, dipendenze, materno-infantile, alloggi popolari, ecc…), soggetti terzi (profit e non profit) che erogano prestazioni in nome e per conto del pubblico, ‘caregiver’ informali personali, non formati né certificati (badanti, baby sitter, ecc…). “Questi tre modelli non si parlano tra loro – è scritto nella proposta -. E’ invece necessario che il pubblico continui a svolgere la sua funzione di gestione dell’accesso e di controllo e valutazione, che il settore profit e non profit sia capace di essere imprenditoriale e di generare rete tra gli utenti: per questo serve una istituzione locale pubblica forte (…). Occorre poi che si creino ‘forme di collaborazione’, se non addirittura di fusione, tra gli attori sociali locali, soprattutto se piccoli. Infine, incoraggiare il ruolo delle imprese private nel welfare”.