Le rivoluzioni arabe un anno dopo
Le rivoluzioni arabe un anno dopo

Ad un anno o poco più di distanza dallo scoppio della “primavera araba” è arrivato il momento per interrogarsi sul significato profondo di questi rivolgimenti che hanno interessato tutto il mondo arabo da occidente ad oriente, dal Marocco fino alla Siria. Segue …

Una prima sintesi non lascerebbe molto spazio per l’ottimismo. In nessuno dei paesi interessati è subentrata una situazione stabile che faccia presagire una svolta verso la democrazia o comunque verso un sistema sociale meno iniquo e meno violento: non in Libia dove dopo la morte del dittatore il paese è tuttora in preda a bande armate che seminano violenza e compiono vendette; non in Egitto dove, nonostante la vittoria degli islamisti alle recenti elezioni, è in corso un braccio di ferro con il Consiglio militare non intenzionato a lasciare il potere ai civili; non in Yemen dove, nonostante l’uscita di scena del presidente Saleh, i disordini e gli scontri armati continuano; non in Bahrein dove l’intervento armato dell’Arabia saudita non ha stabilizzato il piccolo stato; non in Siria dove la repressione del regime di Bashar Assad ha provocato migliaia di morti e, a seguito della defezione di numerosi reparti dell’esercito, il paese rischia di precipitare in una guerra civile di immani proporzioni.

E tuttavia se vogliamo comprendere il senso profondo di quanto è successo, e ancora sta succedendo, occorre lasciare l’approccio limitato della cronaca e guardare agli eventi con l’occhio dello storico. Vedremmo allora che i rivolgimenti del mondo arabo rappresentano un punto di svolta (da misurare in decenni e non in mesi o anni) e possono costituire un’opportunità per superare antiche divisioni tra le due sponde del mediterraneo e tra le due "civiltà" – araba e cristiana – che per troppo tempo considerate separate e inconciliabili.

Quella cui stiamo assistendo non è la prima rivoluzione araba: è la terza in un secolo. La prima avvenne dopo la prima guerra mondiale, con il dissolvimento dell’Impero ottomano, ma finì molto presto con una ricolonizzazione di fatto (sotto forma di protettorati e l’instaurazione di regimi amici) del Medioriente da parte delle potenze europee; la seconda fu la rivoluzione nazionalista e panaraba degli anni ’50 guidata dalla figura carismatica di Nasser, che finì presto coll’essere stritolata dalla logica della guerra fredda e dall’irrisolta questione israelo-palestinese. In questa logica amico-nemico i partiti bath al potere in Egitto, Siria e Iraq, al pari di altri regimi, finirono col trasformarsi in autocrazie repressive che tradirono le aspirazioni delle rispettive popolazioni. Si è trattato di un lungo e doloroso percorso durato un secolo, le cui tappe sono state segnate dalla decolonizzazione, dal nazionalismo, dalla guerra fredda, dal dominio della superpotenza americana, dalla guerra contro il terrorismo – un periodo che è oggi giunto al termine. La fase nuova che si apre non potrà ricalcare le soluzioni fallite del passato.

Se tuttavia da un secolo si allarga lo sguardo più indietro nel tempo, di cinque o sei secoli, vediamo che un altro ciclo più ampio sta arrivando a conclusione. Ciò di cui parlo è la possibilità che si ricomponga quella storica frattura che si venne a creare a partire dalla fine del Quattrocento e nel corso dei secoli successivi all’interno della comune koinè europea, separando la parte nord del Mediterraneo da quella sud. Da allora quella che era stata un’unica per quanto composita civiltà, di lingue, razze e religioni diverse, diventa due civiltà, due mondi separati e sempre meno comprensibili l’uno all’altro. Questa separazione, in parte voluta, in parte accidentale, fu essenzialmente la conseguenza della nuova proiezione dell’Europa settentrionale verso l’Atlantico e della nuova prospettiva di espansione economica rappresentate dal Nuovo mondo e (aggirando l’Africa) dall’Estremo Oriente. Una delle conseguenze fu che il Mediterraneo, ormai relegato a mare chiuso, perse progressivamente di rilevanza e da luogo privilegiato di scambi divenne luogo di separazione.

E’ la storia della modernità, cioè di quel periodo della storia umana caratterizzato da una straordinaria crescita della ricchezza e della potenza tecnologica dell’Occidente che nel giro di alcuni secoli lo portò a dominare il resto del mondo. Una storia fatta di progresso e di sviluppo socioeconomico per l’Europa e per l’America del Nord, ma anche di terribili sofferenze e umiliazioni per tutti i popoli che finirono sotto il dominio delle potenze europee prima e di quella americana poi. Ora questa storia è visibilmente giunta anch’essa al suo esaurimento. La fine degli imperi coloniali nel corso del XX secolo, l’emergere e l’affermarsi di un nuovo polo di sviluppo in Oriente rappresentato dalla Cina e dall’India nel XXI, insieme all’intensificarsi dei processi di globalizzazione e di integrazione dei mercati, hanno reso obsoleti i precedenti paradigmi interpretativi, comunque non più applicabili al presente.

Il passaggio dalla modernità alla post-modernità, l’avvento della globalizzazione e della rivoluzione informatica, in termini geopolitici sta a indicare precisamente questo: che il mondo non è più diviso in Occidente e in Oriente e l’Europa non è più divisa in Nord e Sud. La antica civiltà mediterranea può ritrovare l’unitarietà che ne costituì la ricchezza culturale e anche economica; la distinzione tra islam e cristianesimo non separa più gli appartenenti alle due sponde del Mediterraneo; le identità distinte possono convivere.

Non si tratta di utopie, ma di concrete possibilità, di processi già in atto, anche se probabilmente occorreranno ancora alcuni decenni perché si realizzino compiutamente. Ciò che è inoppugnabile è che l’Europa della sponda Nord del Mediterraneo dispone di uno straordinario capitale di sapere tecnologico e di risorse industriali, mentre la sponda Sud (un tempo anch’essa era considerata Europa) dispone di un altrettanto straordinario capitale umano di centinaia di milioni di persone, per lo più giovani, che chiedono sviluppo e democrazia. Queste due parti hanno bisogno l’una dell’altra per crescere, e che ciò avvenga non è solo possibile, è anche probabile.

C’è una analogia, che giustifica questo moderato ottimismo: anche il decollo della Cina un trentennio fa è avvenuto grazie all’incontro tra le risorse umane della sua popolazione e le risorse tecnologico-industriali dell’Occidente, fu aiutato dal sapere manageriale di alcuni centri finanziari "eccentrici" al continente asiatico come Singapore e Hong Kong e si appoggiò sulla presenza di estese comunità cinesi nell’Asia sudorientale. Le analogie con l’attuale situazione del mondo arabo sono evidenti: Dubai sta ad Hong Kong come le comunità cinesi all’estero stanno alle comunità arabe e mussulmane in Europa. L’unica cosa che manca per realizzare questa prospettiva è la capacità, o la volontà, dell’Europa di svolgere il ruolo che le compete in questo processo di sviluppo con adeguati investimenti e trasferimenti di tecnologia in una partnership paritaria. Certamente, miopi politiche di immigrazione o chiusure in un mercato interno autoreferenziale non serviranno né a fare uscire l’Europa dalla sua attuale stagnazione economica, né a fermare i processi migratori. Soprattutto non porteranno a quella riunificazione delle due sponde del Mediterraneo che non le aspirazioni ideali, ma i concreti processi storici rendono oggi possibile e perfino ineludibile (di Stefano Rizzo).

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