A breve ricorrerà il decennale dell’entrata in vigore della legge 8 marzo 2000, n. 53, recante “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”.
Una legge che, tra le importanti innovazioni introdotte, ha previsto, all’art. 9, incentivi alla conciliazione: l’erogazione di contributi a sostegno di progetti aziendali in favore della flessibilità dell’orario e dell’organizzazione del lavoro, della formazione dei lavoratori al rientro dal congedo, della sostituzione del titolare di impresa o del lavoratore autonomo in congedo. A ben guardare, però, in occasione di questo anniversario, vi è ben poco da celebrare e molto, invece, da recriminare.
Oltre a questo, ciò che colpisce è l’oblio in cui pare essere finita la legge. Nel corso del 2009 si è discusso molto di lavoro, mai della conciliazione lavorativa. Eppure, negli stessi mesi, in parlamento è stata discussa e approvata, il 18 giugno scorso, un’interessante modifica dell’art. 9 (legge 69/2009, art. 38) che, oscurata dai problemi contingenti, è di fatto passata inosservata. Questo nonostante le novità che contiene. Alcune hanno carattere prevalentemente formale; altre entrano più nel merito e dunque vanno al cuore della questione. Tra queste, per esigenze di spazio, mi limito a richiamarne una, che ritengo centrale. Si tratta, nella lettura che ne ricavo, dell’invito a recuperare il carattere, oggi marginale in Italia, delle politiche di conciliazione come politiche del lavoro e dunque a stimolare il tessuto imprenditoriale a investirci. Se ne trova traccia (art. 1, lettera a) nello “specifico interesse per i progetti che prevedano di applicare, in aggiunta alle misure di flessibilità, sistemi innovativi per la valutazione della prestazione e dei risultati”. Dal processo di valutazione ci si attende – questa ritengo sia la tesi sottostante – la conferma che modelli e pratiche organizzative più flessibili e amichevoli possano essere, in verità, anche molto più efficienti di quelli tradizionali, molti dei quali impostati sulla convinzione che la presenza continuativa in ufficio sia il principale indicatore di produttività del lavoro. Questo passaggio è fondamentale allorché spinge a spostare il focus dalla famiglia e, più in generale dalla vita privata, al lavoro come origine della inconciliabilità e quindi a confrontarsi su di una nuova cultura del lavoro, che sappia valorizzare la “doppia presenza” come fonte di valore sociale e insieme economico, per l’impresa e per la società (2); non intenderla, per riprendere le parole di Laura Balbo, come il “sommarsi di due presenze parziali” e neppure come fonte di nuove discriminazioni.
In questo scenario, qual è il contributo offerto dal Piano Italia 2020 per l\’occupazione femminile? Dei cinque punti che compongono il paragrafo dedicato al “Piano strategico di azione per la conciliazione e le pari opportunità nell’accesso al lavoro”, il secondo affronta esplicitamente la riforma dell’art. 9. Trattandosi di un documento programmatico, ci si aspetterebbe di trovare un’analisi approfondita sullo stato dell’arte e quindi l’indicazione delle linee guida lungo le quali il governo intende procedere. Ma non sembra questo il caso. Una buona metà del paragrafo è nient’altro che il testo di legge modificato, nella parte che riguarda le tipologie di azioni ammissibili a finanziamento. Ciò detto, nell’altra metà, accanto a proposte certamente positive quali quella di allargare la cerchia dei destinatari – includendo anche i lavoratori in somministrazione, i soci di cooperativa, i collaboratori a progetto – mi sembra vi sia spazio soprattutto per un richiamo a finalità generiche; ma anche per un’analisi sommaria delle ragioni della “non soddisfacente esperienza dei primi dieci anni di applicazione dell’art.9”, laddove si sostiene, ad esempio, che “l’aspetto che maggiormente ha inciso” in tal senso è la necessità di un accordo di natura sindacale come presupposto per l’ammissibilità dei progetti e si rimanda, quale soluzione, alla possibilità che l’accordo stesso venga eventualmente stipulato su base individuale, direttamente con il datore di lavoro.
A questo fa seguito, per paradosso, un’elaborazione dettagliata delle azioni mediante cui rilanciare lo strumento in esame: si tratta di attività collaterali di “promozione e informazione, compresa una campagna pubblicitaria televisiva”, interventi “di consulenza alla progettazione, di monitoraggio delle azioni”, nonché “l’eventuale infrastrutturazione di reti territoriali a supporto delle aziende”. Vi è però una questione aperta, di non poco conto: che queste attività, pensate per promuovere la “maggiore efficacia ed effettività” dei progetti e dunque per risolvere alcune delle reali difficoltà emerse in questi anni, saranno finanziate con una parte, non ancora quantificata, delle stesse risorse riservate alle imprese. Risorse che, rispetto ai circa 20 milioni di euro annui indicati nel testo di legge originario, si sono nel frattempo ridotte a 15 milioni. (3)
Il Piano del Governo per rilanciare l’art. 9 prevede, dunque, meno contributi per la sperimentazione diretta dei progetti aziendali a fronte, questa almeno è l’attesa, di un incremento delle domande presentate. Auspica, inoltre, una maggiore effettività degli stessi, da conseguire grazie ad azioni promozionali e di supporto ma anche alla possibile rimozione del requisito dell’accordo sindacale per la loro ammissibilità. Non parla, invece, di come risolvere le lungaggini burocratiche e ridurre i cronici ritardi nell’erogazione dei finanziamenti (4). Difficile dire se questa sia la strada giusta da seguire. Specie finché l’art. 9 continua a non essere in vigore.
Note