In un seminario del Turi (rete di istituti di ricerca sindacali europei) si è cercato di analizzare la risposta che i governi dell’Ue hanno dato alla crisi. I paesi membri non sono ancora riusciti ad invertire il cattivo andamento dell’economia reale.
Nonostante la crisi economica e finanziaria non abbia più sulle prime pagine dei giornali il peso che aveva fino a qualche tempo fa, le sue ripercussioni sono tutt’altro che esaurite, in particolare sull’economia reale, e i piani di recupero messi in campo dagli Stati membri dell’Unione europea non sono stati capaci di invertire le cattive previsioni economiche degli istituti internazionali, così indigeste al governo italiano.
È in questo contesto che si è svolto il seminario del Turi (la rete di istituti di ricerca sindacali a livello europeo), dove si è cercato di analizzare la risposta che i governi dell’Unione europea hanno dato alla crisi economico-finanziaria e, in secondo luogo, di proseguire il dibattito su possibili strumenti alternativi al Prodotto interno lordo, indicatore che ha già dimostrato in più occasioni tutta la sua superficialità nel misurare la ricchezza e il benessere degli Stati.
I dati presentati hanno messo in evidenza come le misure adottate, seppure spalmate su due anni (2009-2010), risultano assolutamente insufficienti, sia in termini di quantità di risorse, sia riguardo alla scelta dei provvedimenti stessi. Al netto degli aiuti alle banche e dei cosiddetti “stabilizzatori automatici”, i pacchetti fiscali implementati o annunciati dai governi presi in considerazione corrispondono all’1,8% del Pil per il periodo 2009-2010, mentre si stima lo shock derivante dalla crisi, per il solo 2009, tra il 6 e il 7% del Pil. Sono osservabili differenze considerevoli tra gli sforzi fatti dai diversi Stati presi in considerazione, sia nelle quantità di risorse effettivamente destinate ai piani di recupero, sia nel merito delle misure adottate.
Queste differenze sono parzialmente giustificabili dal diverso peso che gli stabilizzatori automatici hanno nelle differenti realtà nazionali e anche dall’entità delle conseguenze della crisi sulle varie economie. Ad esempio, paesi più colpiti dalla crisi, come Spagna e Germania, hanno messo in campo pacchetti di stimolo fiscale rispettivamente del 2,64 e del 4,6% del Pil (l’Italia è stimata allo 0,2%). Per evidenziare le differenze nel merito dei provvedimenti adottati si pensi che paesi come Spagna e Olanda hanno destinato l’80% delle risorse all’espansione della spesa pubblica, mentre il Regno Unito, dall’altra parte, ne ha destinato soltanto il 10%, puntando tutto sulla riduzione delle tasse.
Nel caso italiano, l’assenza di politiche di stimolo, specialmente sul fronte dell’aumento della spesa pubblica, non ha conseguenze negative soltanto per il nostro paese, ma per tutta l’Ue, visto il peso economico che l’Italia ha nello scacchiere europeo. In molti Stati sono stati privilegiati determinati settori dell’economia, quelli strategici o più colpiti dalla crisi, ma i rischi di protezionismo estremo sembrano comunque scongiurati. Contemporaneamente, sono minime le risorse che si è deciso di investire in politiche attive del mercato del lavoro e il coinvolgimento dei sindacati nella concezione e implementazione di questi pacchetti varia molto da paese a paese. Le misure cosiddette “verdi” e le risorse dedicate alla ricerca e sviluppo, appaiono, al di là degli altisonanti proclami dei governi, effettivamente scarse, specie se confrontate a quelle messe in campo da altri Stati a livello globale.
Un corposo studio empirico eseguito sui contratti collettivi nei Paesi Bassi, presentato dal professor Tangian, della fondazione Hans Böckler, ha aperto una discussione, a partire da una schietta e onesta analisi della mobilità e flessibilità nel mondo del lavoro, su quali debbano essere le priorità attuali del sindacato, messo ulteriormente all’angolo da questa crisi. Anche nella negoziazione collettiva occorrerebbe concentrarsi su grandi rivendicazioni, piuttosto che su dettagli di minore importanza per la sicurezza sociale dei lavoratori. Di fronte alla diffusione su vasta scala del precariato, bisognerebbe proporre, come sindacato, tassazioni che realmente facciano costare il lavoro flessibile di più, senza cedere al ricatto della delocalizzazione (di Andrea Albertazzi).
13 luglio 2009
Fonte: www.rassegna.it