Intervista all’on. Amalia Schirru
Intervista all’on. Amalia Schirru

Pubblichiamo con piacere un’intervista all’on. Amalia Schirru, dedicata ai temi più scottanti delle politiche sociali e sanitarie aperti in Sardegna e nel Paese.

Presentazione

Amalia Schirru è nata a San Sperate, comune di cui nel 1980, a soli 27 anni, è diventata il sindaco donna più giovane d’Italia. Ha vissuto molti anni di impegno prima nel PCI e ora nel PD ed è stata assessore tecnico alle Politiche sociali della Provincia di Cagliari e, in seguito, consigliere regionale. E’ laureata in Pedagogia e frequenta il corso di Scienze dell’Amministrazione e Sviluppo locale. E’ dipendente della ASL 8 ma ha un curriculum di formatrice in ambito sanitario e sociale per diversi Enti locali. E’ riconosciuta sua attenzione al mondo dei disabili ed il suo impegno nella promozione  di politiche di tutela e di sostegno alla famiglia e in particolare alle donne, ai bambini, agli anziani, ai soggetti più deboli. Attualmente è parlamentare e, in questa veste, componente della commissione Lavoro della Camera dei Deputati.

La ringraziamo per aver accettato di rispondere alle nostre domande.

Dalla Convenzione di Torino sui diritti delle persone con disabilità al voto domiciliare, passando per i provvedimenti ancora in discussione: legge 180, prepensionamento, dislessia, lingua dei segni, testamento biologico, consenso informato, terapia del dolore, sordocecità etc, quale è la tua valutazione politica sintetica sulla possibilità del Parlamento di introdurre norme condivise? Esiste, insomma, uno spazio, nelle commissioni, in aula o in ogni altra sede extraistituzionale, per un confronto di merito sui problemi e per la ricerca di soluzioni seriamente condivise ? Ci possiamo aspettare, a tuo giudizio, qualcosa di più e di diverso di un contrasto irrisolvibile tra spinte controriformistiche e la difesa di quanto di importante è stato realizzato in passato ?

Sui temi della disabilità si registra in Parlamento e nelle Commissioni competenti da parte della maggioranza un atteggiamento contraddittorio e ambiguo: per certi versi, si registra un’attenzione alle proposte di legge presentate dalla minoranza, come ad esempio si è verificato per quella sul prepensionamento dei lavoratori con familiari disabili, dove singoli parlamentari del PDL hanno presentato proposte analoghe alla mia.

Tuttavia, nelle sedute del comitato ristretto, i colleghi parlamentari di maggioranza non collaborano e difficilmente si prestano a difendere e/o avanzare proposte di modifica, talvolta anche le loro stesse proposte, se non hanno l’avallo del capogruppo.

Analogo comportamento di arroganza, la maggioranza lo ha tenuto sul testamento biologico al Senato e sul provvedimento di modifica dei permessi per la legge 104/92 alla Camera, quando per scongiurare la cancellazione dei diritti minimi, si è dovuto far appello alla coscienza dei singoli parlamentari affinchè si rimediasse ai provvedimenti del Ministro Brunetta, inspiegabilmente accanito contro tutti i lavoratori e i disabili additandoli, senza gli opportuni distinguo, come falsi malati e fannulloni.

Diversamente, si è riusciti a lavorare con serenità e ascolto reciproco con risultati positivi e condivisi su temi come la dislessia, il voto domiciliare, le cure palliative e del dolore. Con toni pacati e senza pregiudizi, si sono approvati provvedimenti importanti tesi ad affermare diritti della persona, a far riconoscere la dignità della sofferenza.

Questo a dimostrazione che può esistere uno spazio di lavoro comune e produttivo tra maggioranza e opposizione nelle Commissioni e in Parlamento se svincolato da provvedimenti che vengono dai Ministri e dal Governo e se i parlamentari di maggioranza non sono costretti ad esprimersi solo attraverso il voto di fiducia.

Occorre d’altra parte, da parte nostra, una continua vigilanza e una lettura attenta dei singoli provvedimenti che ci vengono proposti, perché alcune norme sono scritte in modo sibillino ed ambiguo e tacitamente implicano scelte disastrose per il nostro Paese, come ad esempio è successo con il blocco delle assunzioni nelle PA all’interno del provvedimento anti crisi del mese di luglio, che scattò anche per le assunzioni degli invalidi in base alla legge 68. 

Ancora l’altro giorno, la Fondazione Zancan ha ricordato le grandi differenze tra gli interventi di politica sociale a carico dei Comuni, in relazione alla spesa ed alla qualità delle iniziative sostenute. La definizione dei LIVEAS – i livelli essenziali di assistenza sociale appare come uno degli strumenti indispensabili per ricostruire l’unitarietà del welfare italiano, oggi segnato da frammentazioni e disomogeneità gravissime destinate ad aumentare nella prospettiva del federalismo fiscale.  Quale è il tuo giudizio a riguardo e quali iniziative sono in corso ?

Ritengo che abbia fatto molto bene la Fondazione Zancan a ricordare e denunciare le grandi differenze territoriali esistenti nel nostro paese nell’ambito delle politiche sociali, oggi più che mai caricate sulle sole spalle dei comuni, le cui risorse economiche ed umane rischiano ogni giorno nuovi tagli. Mi riferisco in particolar modo, agli interventi di centri di accoglienza per l’autonomia di giovani e adolescenti, ai centri per le famiglie, agli spazi per l’infanzia e ancora, agli asili nido e a tutti gli interventi legati alla riabilitazione ed aggregazione sociale dei disabili.

Per questo motivo i parlamentari del PD richiamano continuamente il governo a definire i livelli essenziali dei servizi cosi come sancito dagli art.117 e 118 della Costituzione, necessari per assicurare uguaglianza dei cittadini. L’abbiamo richiamato a gran voce quando abbiamo discusso la legge 42/09 “Delega al governo di federalismo fiscale” in attuazione dell’art.119 della Costituzione. In questa riforma ci sono gli elementi per consentire i miglioramenti dei servizi di produttività ed efficienza della PA con il superamento della spesa storica a favore del finanziamento al costo standard dei livelli essenziali relativi a sanità, assistenza sociale, istruzione, trasporti. Noi ci aspettavamo e abbiamo richiesto che insieme alla riforma ci fosse l’elenco dettagliato dei LIVEAS, lo abbiamo ribadito anche quando in Commissione Bicamerale Infanzia si è discusso dei diritti dei bambini. Per il momento ai nostri richiami sono seguiti solo vaghi impegni, ma nessuna proposta concreta è stata inserita nel Libro verde e bianco del ministro Sacconi.

L’esame del decreto legislativo recante attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15 (ac 82) ci ha lasciato, poi, francamente perplessi. Non si recepiscono fino in fondo le istanze delle Regioni, nonostante ogni cambiamento richiesto sia andato a ribadire la necessità di mantenere l’autonomia organizzativa e la titolarità nella gestione del personale che la Costituzione con l’art. 117 affida a Regioni ed Enti Locali. È un provvedimento che tende a mettere in discussione non solo la differenziazione delle singole Regioni ordinarie ma la stessa specialità riconosciuta alle Regioni a statuto speciale a cui si chiede d’imperio la modifica dei propri statuti. Si vuole rompere in definitiva il contenuto pattizio previsto nell’art.116 della Costituzione, definito anche nel quadro del federalismo unitario e sussidiario (art.117). Per tale motivo il PD ha ribadito la propria contrarietà al presente decreto legislativo.

Ci siamo chiesti con quali risorse intendesse questo Governo attuare la riforma della amministrazione pubblica italiana. Le risorse dove sono? E ancor prima di destinarne parte per l’istituzione della Commissione di valutazione (in aggiunta ad un organismo già esistente come l’ARAN), perché non spendere queste risorse per assicurare livelli essenziali minimi dei servizi per i cittadini, uniformemente sul tutto il territorio nazionale e nel pieno rispetto delle autonomie regionali.

Il Governo, invece, mira ad irrigidire la gestione dei rapporti di lavoro, si disinteressa dei livelli minimi dei servizi, deprime la concertazione mancando di valorizzare l’importanza della contrattazione collettiva, depauperandone le competenze anziché favorirne un esercizio più responsabile e trasparente, libero, teso a trovare soluzioni mirate, più efficiente nell’ambito dei tetti di spesa prefissati, ed il cui rispetto sia certificato dalla Corte dei conti.

Secondo i dati a nostra disposizione, con le leggi finanziarie, nel biennio 2010 – 2011, sono state programmate riduzioni di spesa per cinque miliardi di euro (sette miliardi rispetto all’attuale Patto per la Salute).  Quale è il tuo giudizio su queste scelte e sulle tendenze in discussione ? E nello scontro aperto anche tra le Regioni di centro-destra ed il Governo, quale valutazione esprimi sulla sostenibilità del servizio sanitario regionale in Sardegna, anche alla luce della decisione della scorsa giunta di centro-sinistra di far assumere, in prospettiva, il carico finanziario della sanità interamente sul bilancio regionale ?

Dal 2010, se dovessero essere confermate queste scelte, mancheranno ben sette miliardi per la sanità italiana. Tutte le Regioni sono destinate ad andare in rosso. I servizi sanitari per i cittadini non saranno garantiti. Il rinvio del 4 settembre non è altro che una buona premessa per ulteriori ed imminenti agitazioni anche nel mondo della sanità.

Già all’approvazione del disegno di legge di conversione del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, con i provvedimenti anticrisi, denunciammo come si trattasse dell’ennesimo colpo basso della maggioranza, che mortificava il lavoro dell’intero Parlamento e delle Commissioni.  Ci si aspettava sicuramente un decreto correttivo dopo il lavoro confuso e maldestro del Governo e dopo il richiamo del presidente Napolitano. I nodi invece, permangono e con essi la preoccupazione per un provvedimento che non fornisce né soluzioni né linee guida utili al rientro della crisi, di cui l’operato dell’Esecutivo è certo compartecipe. A proposito di Sanità, con l’articolo 22, il Governo voleva rinegoziare l’autonomia di programmazione delle risorse per la spesa sanitaria delle Regioni. Su questa materia era già intervenuto il Presidente del Comitato delle Regioni, senza purtroppo sortire alcun effetto. Ora, grazie al lavoro fatto dal Gruppo PD, attraverso gli emendamenti, c’è stata la riformulazione dell’articolo, rimandando alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, il patto per la salute. Tale articolo costituisce comunque un grave arretramento rispetto a quanto stabilito dalla Legge finanziaria 2007. E rappresenta per cui, un chiaro tentativo di rimettere in discussione la certezza delle entrate tributarie della Regione Sardegna che provvede al finanziamento del servizio sanitario senza alcun apporto a carico dello Stato.

Il Consiglio regionale ha approvato degli indirizzi che autorizzano la Giunta regionale ad una profonda riorganizzazione della sanità sarda.  Quale è il tuo giudizio sintetico su questo scenario ?

E’ forte l’impressione che si tratti ancora una volta di un colpo di mano usato dalla maggioranza regionale al fine di ridefinire una nuova mappa del potere della sanità regionale. Sui cittadini sardi, invece, ricadranno gli effetti della lottizzazione politica e dello spoil system. L’attuale Giunta Regionale ridurrà le spese sanitarie chiudendo i piccoli ospedali delle realtà periferiche, mi riferisco a Carbonia, Isili, Muravera. Si ha in mente di ridimensionare i servizi della riabilitazione e della prevenzione, il tutto in una cosiddetta logica di riorganizzazione che da un lato riduce i servizi ai cittadini e dall’altro fa si che si possano sostituire i manager delle Asl, per rispondere, come dicevo in premessa, alla spartizione dei posti tra le forze politiche che sostengono il governo regionale. Naturalmente vedremo ridimensionare i progetti messi in campo per il ritorno a casa delle persone non autosufficienti dall’ex assessore regionale Diridin, che aveva stanziato in aggiunta ai fondi della 162/01, oltre 100milioni di euro da assegnare alle famiglie per assistere i propri anziani e disabili nella propria abitazione, nella direzione di favorire e salvaguardare con la cura e gli affetti parentali, la dignità della persona in stato di sofferenza.

Le norme esistenti nel campo dell’invalidità civile sembrano avere una tale complessità da rendere difficile il districarsi anche ai più esperti. Di recente il Ministero dell’Economia ha calcolato un costo di 12 miliardi di euro nella sua "Relazione generale sulla situazione economica del paese 2008”.  Risulta che quasi la metà delle pensioni siano erogate al Sud e nelle isole maggiori, anche se è la Lombardia ad avere il primato fra le regioni italiane.  C’è stato, a tuo giudizio, un ricorso abnorme a questi istituti, in particolare nella nostra regione?

La relazione generale sulla situazione economica del Paese per il 2008 presentata dal Ministro del Tesoro restituisce un’Italia con due milioni di pensioni di invalidità e, secondo i dati, a Sud il 50% in più di casi rispetto al Nord.

Nel condividere in pieno la necessità di maggiori e più efficaci controlli su eventuali frodi, ho sottolineato un elemento importante in questa disparità tra i poli del nostro Paese, così amplificata da Governo e media in questi ultimi mesi e in diverse occasioni. Al Sud, lo ricordo, risiede la maggior parte dei cassa-integrati di più lungo termine, il tasso di povertà e disoccupazione è nettamente superiore rispetto al Nord, il lavoro manca e quotidianamente la crisi miete vittime, in lavoratori e imprese che chiudono. Questo è il terreno fertile sul quale il disagio psico-sociale si innesta, giorno per giorno, portando a lungo andare a situazioni propizie per la malattia e l’invalidità. E a Sud inoltre, ritornano quegli emigrati che, accettando a Nord i lavori usuranti e pericolosi rifiutati dai più, rimangono vittime di incidenti dagli esiti gravi, con conseguenti disabilità e malattie invalidanti.

Questo spiega la differenza nei numeri, così amplificata dal Governo: al Sud si è più poveri, più disoccupati, i lavori sono meno sicuri e meno controllati. 

Il decreto-legge n. 112 del 2008 prevedeva un ingente Piano straordinario di verifica delle invalidità civili, le cui posizioni potenzialmente da verificare erano state stimate – seguendo i criteri espressi dalla citata norma e dal decreto ministeriale 29 gennaio 2009, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 4 marzo 2009, nonché dalla circolare dell’Inps n. 26 del 23 del 26 febbraio 2009 – in 400.000 unità.

Ora è su questi numeri che vanno intensificati i controlli: puniamo meritatamente chi froda perché non lo fa solo a spese dello Stato ma anche sulla pelle dei veri invalidi. Non deve accadere che, come successo in molte parti d’Italia, nonostante si prevedesse l’esclusione dalle verifiche degli affetti da malattie a carattere ingravescente, l’Inps abbia poi convocato anche i soggetti esenti. Il riconoscimento delle invalidità va portato avanti ma non deve aggravare il già lento iter burocratico cui le persone sono sottoposte per il riconoscimento delle stesse: occorre che queste verifiche siano puntuali e che non portino ad ulteriori discriminazioni e mortificazioni per chi già soffre. Compresi i tanti, purtroppo troppi, invalidi onesti che risiedono nel nostro Meridione.

In Sardegna la situazione non è dissimile da quella generale del meridione. Siamo una terra segnata dal fenomeno dell’emigrazione.

Volgendo uno sguardo al passato, penso alle nostre donne, oggi con pensioni al minimo, che dalle periferie contadine andavano nelle città già dall’età adolescenziale, per lavorare come colf presso le famiglie più benestanti. Penso ai piccoli coltivatori, ai pastori: una vita nelle campagne cui, negli anni ’70, impoveriti anche dai processi d’industrializzazione che richiamavano la manodopera dei propri figli, non restava altro per vivere che chiedere il riconoscimento di una pensione d’invalidità all’INPS.

Allora, come oggi, le commissioni mediche nella valutazione dello stato di salute e di benessere della persona guardano con attenzione anche alle condizioni di vita sociale e familiare, preoccupandosi di assicurare loro la sopravvivenza.

Un altro dato che non va sottovalutato e che interessa gli ultimi trent’anni della storia lavorativa sarda, prima nelle miniere e poi nell’industria pesante, è l’aumento di fenomeni come l’abuso di sostanze stupefacenti, d’alcool, che ha determinato malessere e disagio sociale con ricadute pesanti sul sistema delle politiche sociali nei diversi comuni.

Con gli stessi parametri bisogna analizzare il dato odierno: il malessere sociale che oggi vivono le città metropolitane come Milano, spiega come non a caso è la Lombardia ad avere il primato delle pensioni.

La condizione dei carcerati e degli operatori penitenziari appare di nuovo ampiamente oltre il limite della sopportazione. Nel silenzio delle celle si consumano drammi, speranze e la possibilità reale di una qualunque forma di “rieducazione” dei carcerati. La stessa salute fisica dei detenuti è a rischio. Le carceri sarde, a partire da Buoncammino, soffrono un problema di organici che pone a rischio la condizione anche degli operatori penitenziari. Eppure in altre realtà vengono realizzate positive esperienze, per esempio sul terreno del lavoro per i carcerati. Quale è la tua valutazione a riguardo ?

Più volte mi sono recata in visita ai detenuti e alle detenute presso l’istituto penitenziario di Buoncammino a Cagliari.

Non sono nuova a questo tipo di visite, ma non nascondo che ogni volta la sensazione è davvero forte, l’emozione nel vedere queste donne, molte extracomunitarie, quasi tutte giovani o giovanissime, è difficile da descrivere ma senza dubbio lascia un segno tangibile. Nella piccola area della ‘Socialità’, lo spazio comune dove si fanno le poche attività in comune o si ricevono le visite come la mia, ho ascoltato e raccolto le testimonianze di chi ha voluto parlare un po’ di sé, delle proprie difficoltà, delle proprie esigenze. Ci sono i problemi ancora non del tutto risolti delle madri e dei minori in carcere, le storie delle tante donne straniere, condannate per lo più perchè corrieri di stupefacenti o per piccoli furti. Oltre alla difficoltà della lingua, lamentano un dramma che copre in maniera più vasta anche le nostre cronache degli ultimi tempi: un ritorno crudele della discriminazione, una non troppo velata accusa di razzismo, dentro e fuori il carcere, l’estrema difficoltà nell’integrazione, prima di tutto per la lingua, poi per il colore della pelle. Difficoltà che esistono all’interno del carcere e che le aspettano quando torneranno libere.
Ancora una volta mi rendo conto di come da una parte sia necessario che le norme e le leggi debbano essere applicate. Quindi penso ad es. all’istituzione di sempre più case-protette e alla pdl ora in discussione (1814). Così come si deve trovare una soluzione normativa per gli esuberi (Buoncammino ospita 458 detenuti ma ne potrebbe contenere solo 350).

E all’interno degli istituti di pena, supportare fermamente anche chi vi lavora, il personale sanitario, le guardie carcerarie, attraverso rinforzi sulle unità necessarie (a Buoncammino ne occorrerebbero 57 in più), ma anche attraverso attività di formazione continua sul personale, che deve confrontarsi sempre di più con persone straniere. Una formazione quindi che può passare attraverso l’insegnamento della lingua – almeno l’inglese – affinchè la comunicazione con chi è detenuto sia attiva, proficua, tempestiva, fatta di scambio, per quanto possibile. Solo così si comincia ad attuare l’integrazione, vera, solidale, produttiva per la società.

Non ultime, le attività lavorative per chi è detenuto, anche attraverso cooperative ad es, significherebbero un ponte reale  tra l’interno e l’esterno.
Si tratta dunque, anche qui, di un lavoro corale, ad integrare, su diversi livelli. Primo fra tutti, non mi stancherò di ripeterlo, la prevenzione. La tipologia del reato (soprattutto spaccio, traffici internazionali di stupefacenti, furti e piccoli reati commessi soprattutto in relazione alla droga), la durata breve della pena, nonchè la giovane età media dei detenuti, mi danno la certezza che si debba intervenire a monte. Sull’educazione, la formazione, la lotta al disagio giovanile, sulle politiche del lavoro, sulla costruzione di opportunità, per i nostri figli e per chi arriva nel nostro paese in cerca di miglior fortuna. Un’azione che deve attuarsi a livello nazionale ma anche e soprattutto a livello internazionale: tanti, troppi sono i detenuti stranieri che arrivano sul nostro territorio e vanno ad alimentare, deboli tra i deboli, le fila dei malavitosi di turno, sempre pronti a sfruttare i più indifesi.

Un condannato in misura alternativa, in affidamento ai servizi sociali, costa 5 euro al giorno allo Stato, un detenuto costa dai 150 ai 200 euro al giorno allo Stato. Con la misura alternativa la situazione si ribalta, non più il 70% che torna dentro, ma il 30%. Quindi solo il 30% di coloro che scontano la pena invece che in carcere, in affidamento, in semilibertà e quant’altro, tornerà a commettere un reato, il 70% di chi sconta la pena in carcere, tornerà a commettere un reato, questo è proprio il contrario della sicurezza.

Alcuni episodi di respingimenti in mare verso la Libia verificatisi ultimamente, documentati anche sul nostro sito, hanno provocato tragedie e messo in discussione la legalità dei comportamenti del nostro Paese in tema di accoglienza e di riconoscimento del diritto di asilo.  In questo quadro il fenomeno degli sbarchi interessa ormai anche la Sardegna: è stato calcolato (cfr. Fortresse Europe) che almeno 138 giovani sono morti negli ultimi anni navigando tra l’Algeria e la Sardegna …  Le tue impressioni su quanto stà accadendo …

Secondo il VI Rapporto sugli “Indici d’integrazione degli immigrati di Italia” presentato al CNEL a febbraio, la regione che riesce a garantire il miglior livello d’integrazione in relazione agli standard di vita della popolazione locale, è al Sud ed è proprio la Sardegna.

Da terra di emigrazione, la nostra Regione è diventata ormai terra d’immigrazione. È notizia recente quella che nel comune di Arzachena, per esempio, su una popolazione di 12.000 abitanti, più di 1000 persone sono di origine extracomunitaria e trovano lavoro nel turismo, nel commercio e nell’agricoltura, una media molto più alta di quella nazionale.

La volontà politica di frenare l’immigrazione attraverso la legge 189 del 2000, si è tradotta nel suo contrario: ha incentivato l’immigrazione irregolare, e conseguentemente il lavoro nero e ha orientato il mercato nella direzione del risparmio dei costi, rinunciando quindi a perseguire migliori livelli di assistenza e di qualità del lavoro. Alla luce di quanto detto, la legge Bossi – Fini, deve essere modificata e ridefinita, poiché oltre ad essere una legge particolarmente repressiva nei confronti dell’immigrazione clandestina, ha anche introdotto meccanismi d’ingresso rigidi e inadeguati alla flessibilità del mercato ed in particolare a quello di cura.

Non possiamo non tener conto che in Italia, come del resto nella nostra Regione, si registra una penuria di manodopera nel mercato dei lavori manuali specie in agricoltura, nell’edilizia e nel settore delle pulizie e della cura delle persone. Tutto ciò ha determinato, per esempio, che molte famiglie provvedano a risolvere i problemi dovuti all’assistenza e al lavoro di cura, in solitudine. Il ricorso alla badante, spesso straniera, è diventata l’unica scelta che le famiglie hanno a disposizione per mantenere l’anziano nel nucleo familiare a fronte di un welfare insufficiente.

Perché le politiche sociali si sviluppino in integrazione, il Governo dovrebbe individuare due interventi da realizzare con urgenza: la legge sul diritto di cittadinanza e quella sul diritto di voto amministrativo per gli immigrati.

Mentre il Presidente Obama saluta l’inizio dell’anno scolastico degli studenti americani con un appassionato appello alla responsabilità individuale ed alla serietà degli studi, in Italia avvertiamo altri accenti. L’integrazione scolastica degli studenti disabili assume, nel nostro Paese ed in Sardegna, i contorni di una sfida incerta.  In queste settimane le preoccupazioni degli operatori e delle famiglie stanno crescendo ….   Quali sono, in sintesi, le tue valutazioni sulle politiche per l’integrazione scolastica dei disabili in Sardegna ed in Italia ?

I diversi sit-in di protesta contro la Legge Gelmini che hanno visto la partecipazione di centinaia di precari fra docenti e collaboratori tecnico-amministrativi (Ata), testimoniamo un malessere e un disagio diffusi, poiché tantissimi, troppi, restano in attesa di stabilizzazione nel settore della scuola, tra i più colpiti dalla tragedia del precariato e dai tagli della Legge 133/08. I tagli al mondo della scuola imposti dal Governo, in Sardegna, considerata la specificità della nostra Regione, avranno certamente gravi ricadute in termini di disoccupazione e disagio sociale. Secondo i dati regionali, nella scuola cagliaritana ci saranno quest’anno 800 docenti e 300 Ata in meno, 712 prepensionamenti e solo 121 immissioni in ruolo, di conseguenza migliaia di precari senza lavoro.

In tutta Italia complessivamente con la 133/08 dal 1° settembre gli organici della scuola si riducono di circa 42.000 docenti e 15.000 Ata (amministrativi, tecnici ed ausiliari). Tagli che verrebbero riconfermati nelle stesse dimensioni anche per i due anni scolastici successivi. La politica dei tagli anche sul sostegno produrrà, appunto, notevoli danni anche all’integrazione scolastica degli alunni diversamente abili e gravi ripercussioni sui docenti di sostegno, professionisti che lavorano con dedizione e passione che vedranno svalutate le proprie professionalità, come ho avuto modo di sottolineare in diversi interventi precedenti. Non nascondo una forte preoccupazione per i frequenti esempi di demotivazione che mettono in serio pericolo i percorsi educativi rivolti alle fasce più deboli. A ciò si aggiungono le angosce dei famigliari di bambini disabili, che vedono nell’istruzione un valido strumento di crescita, talvolta unica risorsa per i loro figli.

L’accordo di programma siglato tra il Ministero e la Regione sarda e quello appena siglato tra Inps e Ministero come ribadito nei giorni scorsi dalle segreterie provinciali della Flc Cgil, Cisl Scuola e Uil Scuola, consentiranno una copertura parziale delle esigenze del solo personale inserito nelle graduatorie permanenti, poichè il primo si limita all’utilizzo di una parte dei fondi regionali stanziati precedentemente per la dispersione scolastica, l’altro a garantire l’utilizzo intermittente dell’indennità di disoccupazione (che sarebbe comunque stata erogata a questo personale).

I problemi da affrontare sono tanti. Chi opera per l’integrazione dei disabili sa che educare al rispetto e al valore delle differenze significa educare a nuove forme di cittadinanza. Sa che educare alla diversità significa comprendere la complessità del problema e aumentare le competenze negli insegnanti, nei genitori, nei cittadini, nelle Istituzioni. Sa anche che si troverà a combattere con meccanismi naturali come l’etnocentrismo che potrebbe sfociare in pregiudizi, stereotipi, razzismo, fenomeni di bullismo. Per contrastarli occorre essere preparati. I docenti e il personale scolastico dovrebbero poter pretendere di essere formati continuamente, di essere liberi di stabilire reti con il territorio e le istituzioni, di lavorare in autonomia e in serenità.

In fondo, non dobbiamo dimenticarlo, stiamo formando donne e uomini del futuro, consegnando loro gli strumenti che li renderanno cittadini consapevoli di una società sempre più multietnica, aperta e complessa.

Il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali in collaborazione con la Città di Torino organizza la terza Conferenza nazionale sulle politiche della disabilità, a Torino a primi di ottobre. I principali ministri interessati pare abbiano già annunciato la loro impossibilità a partecipare, suscitando la protesta delle associazioni dei disabili.  Per quanto ti riguarda, quale è il tuo giudizio sull’appuntamento di Torino ?

Mi sconcerta e rammarica profondamente che il governo non partecipi alla Convenzione. A rappresentare l’esecutivo dovrebbe esserci unicamente il sottosegretario al Welfare con delega alla disabilità, il cui ruolo non è certamente messo in discussione, ma resta il fatto che i temi da affrontare abbracciano dicasteri e responsabilità differenti, che rischiano di essere completamente assenti dalla Conferenza nazionale. Dall’economia alle politiche comunitarie, alla sanità, alla scuola, ai trasporti e al turismo, la vita delle persone disabili interseca materie e competenze diverse e appare quanto meno riduttivo prevedere un appuntamento così importante, senza la presenza dei riferimenti ministeriali. Sarà un’altra occasione mancata per la maggioranza che avrebbe potuto contribuire all’affermazione dei diritti fondamentali per tutti, disabili e normodotati, alla promozione del rispetto della dignità umana, della libertà di espressione, del diritto alla salute e al lavoro, contribuendo all’abbattimento delle barriere strutturali e di pregiudizio che ancora sussistono nel nostro Paese, soprattutto quando si parla di disabilità.

Come ho avuto modo di ribadire durante la giornata dedicata alle persone disabili, continuo a sperare sinceramente che il Governo faccia la sua parte, in breve tempo e nel migliore dei modi possibili, affinché il tema della disabilità resti all’ordine del giorno, non sia materia di tagli o di curiose ‘semplificazioni’ e che conduca alla vera tutela e ad un pieno riconoscimento dei diritti.

Un qualificato coordinamento di associazioni impegnate sui temi della salute mentale ha inviato al Presidente della Repubblica, alle autorità nazionali ed a qualle regionali un documento sulla "Tutela della salute mentale e dei diritti di cittadinanza". Il testo esprime un punto di vista estremamente critico rispetto alle proposte di legge depositate alla Camera e al Senato in merito alla cancellazione della legge di riforma psichiatrica  ed alla revisione della legge di riforma sanitaria.  Qual è il tuo giudizio sintetico sulle proposte di legge presentate alla Camera ?

La legge n. 180 del 1978, nota come Legge Basaglia, abolì gli ospedali psichiatrici ed istituì i servizi di igiene mentale, per la cura ambulatoriale dei malati di mente.

A posteriori si può senz’altro dire che con la legge Basaglia molte persone malate hanno potuto vivere una vita abbastanza “normale”, accanto ai familiari, avendo la possibilità di muoversi liberamente, di lavorare, di essere seguiti a distanza da un’équipe terapeutica che si occupava di migliorare, in tutti i modi, la loro esistenza.

La famiglia, infatti, ha un ruolo insostituibile nella vita di una persona ed i servizi sociali sono utili in quanto riescono ad appoggiare ed aiutare la famiglia dall’esterno. È anche vero però, che non tutti i familiari hanno il tempo, la forza, le risorse, per farsi carico dei tanti problemi che sorgono quando qualche familiare si trova in condizioni di disabilità mentale.

In questo senso la legge Basaglia andrebbe forse migliorata, in modo da ampliare ulteriormente l’aiuto delle istituzioni alle famiglie che hanno un malato mentale in casa e che non possono essere certamente abbandonate a sé stesse. 
Mi riferisco per esempio a sperimentare l’assistenza di cura della persona a domicilio con interventi di sostegno individuali di carattere psicologico e collettivi al fine di incentivare l’autonomia del disabile mentale. Penso a case semiprotette, autogestite capaci di mantenere relazioni sociali con le proprie comunità e alla necessità non più prorogabile di avviare attività lavorative insieme a cooperative sociali di tipo B, di cui esistono ormai progetti significativi anche in Sardegna.

Non sono sicuramente condivisibili, invece, le modifiche che si vorrebbero introdurre con le proposte di legge presentate alla Camera e al Senato da esponenti del Pdl e della Lega, già degnamente denunciate nel documento "Tutela della salute mentale e diritti di cittadinanza" elaborato dal Coordinamento nazionale salute mentale e diritti.

Ribadisco pertanto la mia contrarietà ai trattamenti sanitari obbligatori prolungati, allo svuotamento del ruolo del servizio pubblico e solleciterei invece maggiori investimenti da parte delle regioni sui dipartimenti di salute mentale.

Come, anche di recente, ci ha ricordato Giovanna Del Giudice, è aperto in Sardegna uno scontro pesante che investe, tra l’altro, la possibilità che prosegua l’iniziativa avviata negli scorsi anni per un rilancio dei servizi per la salute mentale.  Quale è il tuo giudizio sulle realizzazioni della precedente Giunta di centro-sinistra in materia di salute mentale e quali auspici esprimi per il futuro ?  

In Sardegna, l’assistenza alle persone con disturbi mentali è stata oggetto di una profonda riorganizzazione, volta al sostegno continuativo delle persone e delle loro famiglie.

In ogni azienda sanitaria sono istituiti i Dipartimenti di Salute Mentale responsabili dell’organizzazione dei servizi e degli interventi nel settore della salute mentale. Ai DSM afferiscono i Centri di Salute mentale.

Grazie al coraggio di tanti operatori, già dagli anni novanta si era lavorato alla chiusura del manicomio di Cagliari, realizzato e organizzato dalle comunità di accoglienza per i malati senza famiglia e, con il sostegno dei servizi sociali degli enti locali, sperimentato il ritorno a casa di diverse persone rinchiuse fin da giovani in quelle strutture chiuse, inadeguate e abbandonate dalla sanità pubblica.

Solo grazie a progetti integrati è possibile recuperare e garantire una vita dignitosa alla persona. Occorre pertanto investire di più nel campo sociale, formativo e lavorativo. 

 

Aldilà di ogni retorica sul ruolo del Terzo settore, quali giudizi o impressioni hai sullo stato dell’economia cooperativa e sul suo ruolo, in Sardegna e in generale? E sul lavoro delle operatrici e degli operatori sociali?

Secondo l’analisi contenuta nel Libro Verde l’Italia è un paese dalle tante anomalie, dalle numerose disfunzioni, dagli sprechi e dai costi di un modello che vede la spesa della previdenza al 66,7%, la sanità al 24%, l’assistenza sociale all’8,1%. La spesa sanitaria e quella sociale sono evidentemente penalizzate e lo sono soprattutto a fronte di una domanda qualitativa e quantitativa sempre crescente, determinata da un invecchiamento crescente, da una bassa natalità e da un aumento sostanziale delle patologie che portano alla disabilità (2,5 milioni, di cui 900.000 domiciliari).

Occorre, per creare maggiori e migliori posti, non una deregolazione delle regole di gestione dei rapporti di lavoro, ma l’esatto contrario. Il mercato del lavoro deve essere trasparente, dinamico e occorre ridare credibilità all’azione del settore pubblico. Lo Stato e gli enti locali e regionali devono ripristinare un controllo e una verifica efficaci e riprendere in mano l’affidamento di selezione e acquisizione del personale.

Senza entrare in maniera approfondita nel merito delle politiche sociali, ancora ampiamente confuse con la sanità e la previdenza sociale, bisogna evidenziare alcuni aspetti importanti. In primis, si scontano i ritardi: le politiche dei servizi sociali vanno riviste per una piena e completa attuazione in tutto il territorio nazionale. Negli anni passati anche in Sardegna si è delegato e abusato della cooperazione sociale, esternalizzando i servizi, troppo spesso affidati all’associazionismo e al volontariato, ed è venuta a mancare un’integrazione adeguata tra il territorio, gli EL, le associazioni e il SSN e le stesse politiche del lavoro. Lo stato deve ripensare i servizi sociali, tornando ad una più efficace, regolamentata ed integrata internazionalizzazione dei servizi.

Di conseguenza va definito il fondo necessario per la copertura dei servizi e vanno parallelamente definiti ed assicurati i livelli minimi ed essenziali di assistenza sociale su tutto il territorio nazionale: servizi di prevenzione, di socializzazione, educativi, di assistenza domiciliare integrata, di accoglienza, di comunità e di integrazione al reddito di pensione minima. Realmente, si tratta di una sfida non solo economica ma progettuale e culturale che deve guardare ai bisogni concreti della persona nel suo insieme, in relazione alla famiglia e al contesto sociale.

La Legge 328/01 e il riordino della normativa sui servizi sociali, che individuano gli interventi di carattere sociale e i servizi che vanno offerti a tutti i cittadini, vanno ulteriormente ripensati in forme che aiutino a superare il concetto di pura ‘assistenza e sollievo’ per passare al concetto di servizio quale sviluppo di reali e nuove opportunità di benessere per la persona in stato di bisogno, ma anche e soprattutto un campo di sensibilità e qualificate attività lavorative.

Tra tanti altri importanti avvenimenti, stà per aprirsi anche il primo congresso di Legacoopsociali.  C’è un messaggio che, attraverso il sito di Legacoopsociali e questa intervista, vuoi rivolgere alle cooperative sociali della Sardegna, alle loro socie ed ai loro soci ed a quanti lavorano in questo sistema ? 

È mia intenzione rivolgere a tutti i partecipanti del Congresso di Legacoopsociali i miglior auguri di buon lavoro per questo vostro primo appuntamento.  La cooperazione sociale, nonostante gli ostacoli riesce a fornire risposte importanti per la vita del nostro Paese, sia in termini di partecipazione responsabile dei cittadini, sia in termini ovviamente di sviluppo sociale ed economico. Creando nuove occupazioni e nuove professionalità, riesce ad essere uno dei principali strumenti utili al fine di superare le mere logiche assistenzialistiche.  La cooperazione come luogo di ricomposizione sociale fa si che il nostro paese si sia sempre distinto, sia nel mercato nazionale, che internazionale, per incentivare una società equa e solidale e per questo necessita di maggiore attenzione da parte delle Istituzioni. Auspico e mi impegno in questo senso, che si possa mettere in campo al più presto una nuova politica più attenta a dare il giusto rilievo alle istanze del Welfare e della Cooperazione nel nostro Paese.

 

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