La condotta del datore di lavoro che costringe le sue dipendenti, mediante la minaccia di licenziamento, a firmare buste-paga superiori alla prestazione lavorativa effettivamente compiuta, integra il reato di estorsione di cui all’art. 629 c.p. . Segue …
Così si è pronunciata la II Sezione della Corte di Cassazione, dichiarando inammissibile il ricorso dell’imputato, il quale, dopo esser stato condannato per tale delitto sia in primo che in secondo, ricorreva in cassazione deducendo tre motivi.
Circa la violazione dell’art. 629 c.p., l’imputato lamentava che la Corte di Appello aveva ritenuto la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di estorsione, pur in totale assenza di condotte idonee ad incutere timore ed a coartare la volontà dei soggetti passivi – mancando la minaccia, diretta o indiretta, palese o larvata, reale o figurata – come dimostrato dal fatto che nessuna emergenza processuale deponeva in tal senso e che entrambe le parti offese non solo avevano proposto ricorso avanti al giudice del lavoro, sostenendo di essere creditrici della ditta (di cui l’imputato è il titolare), ma si erano anche recate dai sindacati per incomprensioni verificatesi durante il rapporto di lavoro.
Il Supremo Collegio, quindi, confermava il principio giurisprudenziale secondo cui la fattispecie di cui all’art. 629 c.p. è integrata dalla condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione di mercato per lui vantaggiosa per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, ed in generale, condizioni di lavoro che siano contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi.
Com’è noto la fattispecie di estorsione è un reato a forma vincolata ed ai fini della sua esistenza è necessario che il soggetto agente usi violenza o minaccia come mezzo per costringere la vittima a compiere un atto di disposizione patrimoniale. Tale atto di disposizione deve procurare all’agente (o ad altri) un ingiusto profitto con l’altrui danno.
Nella sentenza in epigrafe gli Ermellini hanno richiamato le argomentazioni della Corte territoriale, affermando che per configurarsi l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 629 c.p. è sufficiente che la minaccia sia tale da incutere una coercizione dell’altrui volontà, a nulla rilevando che si verifichi un’effettiva intimidazione del soggetto passivo.
Conclusivamente, la sentenza in epigrafe si segnala per aver posto precise e puntuali conclusioni in merito all’elemento oggettivo della fattispecie di estorsione: infatti, la Suprema Corte stabilisce che la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento strutturale del delitto de quo devono essere valutate in relazioni a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, l’ambiente in cui egli opera, l’ingiustizia della pretesa e la particolare situazione soggettiva della vittima.
Fonte: www.personaedanno.it