Il nostro sistema di relazioni industriali si è storicamente caratterizzato per un debole grado di istituzionalizzazione: cioè per la mancanza o per la debolezza delle regole principali del sistema (una riflessione di Tiziano Treu).
In particolare per la carenza di criteri per misurare la rappresentatività dei sindacati e delle rappresentanze dei lavoratori in azienda, procedure per l’efficacia dei contratti collettivi, rapporti fra diversi livelli di contrattazione, condizioni e limiti del conflitto.
L’assenza di disciplina legale non è stata compensata da regole contrattuali condivise ed efficaci.
Se tale situazione di assenza ha permesso in passato al sistema di svilupparsi libero da condizionamenti ha presentato, negli ultimi anni, crescenti controindicazioni a causa delle divisioni sindacali e delle avverse situazioni economiche che hanno costretto gli attori delle relazioni industriali a negoziare accordi di crisi spesso limitativi delle condizioni economiche e di lavoro. Il manifestarsi di gravi contrasti sul valore degli accordi collettivi, emblematizzati dalle vertenze Fiom – Fiat, tuttora aperte davanti ai giudici è destinato a pesare sulla certezza e sulla stabilità dei rapporti sindacali nelle aziende.
L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e, in modo diverso, l’art. 8 del decreto 138/2011 hanno cambiato radicalmente il quadro, introducendo regole che avvicinano, per questi aspetti, il nostro sistema a quello dei maggiori paesi europei. Ma con alcune sfasature fra i due testi che non favoriscono la certezza delle regole. Segnalo schematicamente i punti critici.
1. I criteri di misurazione della rappresentatività sindacale stabiliti dall’accordo (punto 1) sono diversi da quelli utilizzati in altri paesi, ma sufficientemente precisi per individuare gli agenti negoziali a livello nazionale. Lo conferma l’esperienza del Pubblico impiego dove hanno avuto estesa applicazione. Le indicazioni dell’art. 8 del decreto 138/2011 richiamano le regole dell’accordo solo per quanto riguarda la operatività delle rappresentanze aziendali. Sorgono almeno due problemi: come misurare la rappresentatività dei sindacati abilitati a negoziare le “specifiche intese dell’art.8”? invece che con i più precisi criteri dell’accordo del 28 giugno? con criteri tradizionali dei sindacati comparativamente più rappresentativi. E come valutare il richiamo alla rappresentatività territoriale, che è un concetto del tutto inedito in Italia e altrove?
Inoltre l’art. 8 usa un termine generico rappresentanze aziendali, senza precisare se si tratta di RSA o RSU, il che crea ulteriore incertezza.
Resta inoltre irrisolta la questione delle condizioni necessarie affinchè queste rappresentanze abbiano titolo ai diritti sindacali dello Statuto dei lavoratori. Se si interpreta restrittivamente la lettera b dell’art. 19 dello Statuto e si riconoscono tali diritti solo ai sindacati firmatari di accordi collettivi, ci si espone a serie obiezioni di costituzionalità. E’ per questo che la recente decisione del giudice Ciocchetti ha ritenuto antisindacale la decisione della Fiat di negare i diritti sindacali alla Fiom in quanto non firmataria di accordi applicati nell’azienda; e ha suggerito una interpretazione estensiva dell’art. 19 per riconoscere tali diritti alla Fiom in quanto partecipe da sempre alla contrattazione anche se non firmataria dei recenti accordi.
2. L’accordo del 28 giugno attribuisce efficacia ai contratti aziendali conclusi secondo il principio di maggioranza, operante in modo diverso a seconda che gli stipulanti siano RSA o RSU. Ma tale dichiarazione non ha valore giuridico per le organizzazioni non stipulanti data la natura privatistica dell’accordo.
La questione dell’efficacia generale è invece risolta dall’art. 8 del decreto 138: col che anche per questo aspetto il nostro ordinamento acquisisce un tratto comune agli altri paesi europei. Questa parte del decreto 138 ha carattere di sostegno alla contrattazione, e contribuirà a ridurre l’incertezza circa gli effetti dei futuri contratti aziendali.
Senonchè anche qui si aprono dei problemi. L’art. 8 attribuisce tale efficacia generale non solo ai contratti aziendali ma anche a quelli territoriali. Tale estensione solleva dubbi sulla costituzionalità della norma per contrasto all’art. 39 della Costituzione, perché gli argomenti tradizionalmente usati per ammettere l’efficacia generale dei contratti aziendali al di fuori dell’art. 39 non sono estendibili ai contratti territoriali.
Inoltre le condizioni poste dall’art. 8 per riconoscere l’efficacia generale degli accordi sono sfasate rispetto a quelle previste dall’accordo del 28 giugno. L’art. 8 richiede che gli accordi siano sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario “relativo alle rappresentanze sindacali” il che sembra escludere l’uso del referendum che è invece previsto dall’accordo del 28 giugno qualora le intese aziendali siano stipulate dalle RSA. In altri ordinamenti europei tali questioni sono risolte dalla legge che definisce chiaramente i poteri degli agenti e le procedure negoziali.
3. I rapporti fra i livelli contrattuali sono regolati dall’accordo del 28 giugno secondo due criteri fondamentali: gli accordi decentrati sono competenti nelle materie “delegate“ dal contratto nazionale, e per altro verso possono derogare a questo solo entro limiti definiti dalle parti nazionali. Tali criteri rispondono a un modello di “decentramento” controllato dal centro, simile a quello vigente in altri paesi (Germania e Francia).
L’art. 8 autorizza invece gli accordi decentrati a derogare senza limiti alle clausole del contratto nazionale nelle materie previste dalla stessa norma che sono alquanto ampie. In tal modo si conferisce alla contrattazione decentrata un potere più ampio di quello ammesso dall’accordo del 28 giugno e da tutta la tradizione delle nostre relazioni industriali. Si configura di conseguenza un decentramento non più controllato dal centro ma “libero” (come quello richiesto dalla Fiat).
4. Infine l’art. 8 attribuisce ai contratti decentrati il potere di derogare anche alla normativa di legge su una serie di materie comprendenti tutti gli aspetti della disciplina del rapporto di lavoro, salvo il rispetto della Costituzione e della normativa comunitaria e internazionale. Poteri di deroga alla contrattazione sono presenti da tempo nel nostro ordinamento, e anche in altri paesi. Ma in questi precedenti i poteri di flessibilità negoziata sono stati sempre contenuti entro limiti più o meno ampi definiti dallo stesso legislatore, in conformità con l’idea che quelli conferiti alla contrattazione collettiva sono poteri “delegati”. Qui, viceversa, la delega alla contrattazione è senza limiti e senza criteri direttivi, pur riguardando materie fondamentali dell’ordinamento, vere e proprie norme di sistema, a cominciare da molte di quelle contenute nello Statuto dei lavoratori.
Non sorprendono quindi le riserve rivolte alla norma da varie parti, anche da commentatori non contrari a valorizzare la contrattazione decentrata. Le riserve riguardano sia l’ampiezza dei poteri attribuiti alla contrattazione sia il fatto che tali poteri non sono riferiti alla contrattazione nazionale, com’è stato nelle versioni originarie di flessibilità negoziata, ma solo a intese aziendali e territoriali, concluse anche da soggetti aziendali o da rappresentanti territoriali, con i rischi sopra richiamati.
L’impatto di questo art. 8 sui rapporti contrattuali dipenderà dall’uso che ne faranno le parti sociali. Esse potranno seguire le direttive dell’accordo del 2011, come si sono impegnate a fare con la nota integrativa dei sottoscrittori dell’accordo siglata il 21 .9.2011, riaffermando la loro volontà di controllo centrale del sistema. Ma la norma autorizza scelte diverse, che potrebbero affermarsi anche in singoli settori, territori o aziende a seconda delle circostanze. Le pressioni centrifughe sollecitate dalle trasformazioni produttive e dalla concorrenza globale potrebbero indurre gli attori ad accettare forme di decentramento fuori dal quadro nazionale con la conseguenza di un progressivo depotenziamento del contratto di categoria.
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