Nelle ultime settimane, il Nord Africa sta vivendo un risveglio politico che ha già determinato la caduta dei Presidenti di Tunisia e Egitto, Ben Ali e Mubarak. Segue …
L’Algeria vive un periodo di tensione, e l’onda della protesta contro i regimi al potere non sembra arrestarsi. I paesi del Maghreb, Libia, Egitto e Sudan, contano 220 milioni di abitanti e diversi milioni di immigrati irregolari e rifugiati. In terra italiana, sono circa 700.000 i cittadini "in regola" provenienti da questi paesi oltre ad un numero imprecisato di irregolari. In pochi giorni, migliaia di persone sono sbarcate sulle coste italiane in fuga dalla Tunisia. Nessuno può prevedere cosa avverrebbe in caso di grave instabilità in Libia o in Egitto. Ospitiamo alcuni estratti di un intervento di Laurent Jolles, delegato per l’Europa del Sud della Organizzazione Mondiale per i Rifugiati (UNHCR – United Nations High Commissioner for Refugees; http://www.unhcr.it), che ha toccato il delicato tema dei flussi via mare diretti verso l’Europa, e della difficoltà di distinguere gli irregolari da coloro che hanno titolo all’asilo ed alla protezione. Una difficoltà che l’Italia non ha voluto risolvere nell’azione, concordata con la Libia, dei respingimenti in mare. L’intervento di Laurent Jolles è avvenuto di fronte al Comitato Parlamentare per l’Attuazione dell’Accordo di Schengen, lo scorso 1 Febbraio 2011.
Asilo e protezione per un quarto degli irregolari via mare
Il flusso migratorio che arriva via mare, sbarcando sulle coste italiane, è un flusso “misto”, composto da migranti in cerca di lavoro ma non in possesso dei documenti necessari, e che quindi debbono essere respinti, e di persone che hanno titolo a ricevere asilo o protezione, perché perseguitati, discriminati o in fuga da conflitti e disastri naturali. Non si può respingere al mittente un’imbarcazione e i suoi sfortunati passeggeri senza che esista possibilità di chiedere asilo o protezione.
In assenza di cifre precise sul fenomeno, l’UNHCR ha provato a stimare l’effettiva composizione di questi flussi, mettendo in relazione tre grandezze: gli arrivi via mare, i richiedenti asilo e coloro che, dopo l’esame delle loro domande di asilo da parte delle competenti Commissioni Territoriali, hanno ottenuto una forma di protezione internazionale, lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951 o la protezione sussidiaria. Da questi calcoli è emerso che nel 2008 (anno nel quale si è registrato il picco degli arrivi via mare) delle 35.000 persone arrivate irregolarmente via mare (di cui circa 30.000 a Lampedusa), il 70 % ( 24.500) ha fatto domanda di asilo. Inoltre circa l’80% dei richiedenti che hanno fatto domanda di asilo in Italia nel 2008 sono arrivati via mare. Poiché il 37% dei richiedenti (dati del 2008) ottiene un riconoscimento, si può stimare che 9.000 persone (37% dei 24.500 richiedenti arrivati via mare) sono state considerate, dalle competenti Commissioni Territoriali, bisognose di protezione internazionale. Un risultato che non sorprende, considerato che tra i maggiori paesi di origine degli sbarcati, a Lampedusa e in Sicilia, troviamo la Somalia e l’Eritrea, due paesi che da molti anni (si passi il brutto termine), “producono” rifugiati.
Alla luce di questi dati, e considerando che circa un quarto di coloro che arrivano irregolarmente via mare sono rifugiati e persone che ottengono la protezione sussidiaria, non si può più semplicemente parlare di flussi migratori, intesi come flussi di migranti economici. Ed è per questo che l’UNHCR già da tempo li definisce “flussi migratori misti” (“mixed migration flows”, come vengono definiti in contesto internazionale). Poiché questa tipologia di flussi comprende diverse categorie di migranti – migranti economici, persone costrette a fuggire dalle persecuzioni, dalle violazioni dei Diritti dell’Uomo, dalle guerre, da situazioni di violenza generalizzata – occorre affrontare e gestire queste migrazioni in modo articolato. Occorre infatti distinguere tra le diverse categorie di migranti, riservando ad ognuna di queste un trattamento specifico, esaminando la situazione di ogni singolo individuo prima di prendere una decisione sulle misure da adottare. Va cioè valutato l’eventuale bisogno di protezione di ogni singola persona, con particolare attenzione alle conseguenze che un eventuale respingimento verso uno Stato terzo, o un rimpatrio verso il paese di origine, può avere per l’integrità dei Diritti Umani.
L’accordo Italia-Libia contempla il pattugliamento misto delle acque costiere ed il respingimento delle imbarcazioni col loro carico di irregolari. Ma queste procedure non consentono, a chi ne avesse titolo, di presentare domanda di asilo, nemmeno una volta tornati in Libia dove non esiste questa possibilità. Si noti che i dati qui presentati non tengono conto degli sconvolgimenti delle ultime settimane, che muteranno profondamente il quadro statistico generale.
L’UNHCR, come senz’altro si ricorderà, ha fortemente criticato la politica dei respingimenti in mare, applicata dal Governo italiano a partire dal maggio 2009 nei confronti di coloro che, in partenza dalla Libia, tentavano di arrivare sulle coste italiane. L’UNHCR era, e tuttora è, preoccupata che nel contesto di un salvataggio in alto mare o nel contesto di operazioni di intercettazione e di interdizione, non ci sia l’effettiva, concreta possibilità per il personale addetto di procedere adeguatamente alle valutazioni, caso per caso, della posizione e degli eventuali bisogni di protezione dei singoli individui. Stando ai dati forniti dal Ministero dell’Interno, infatti, nel 2009 gli sbarchi sono calati del 74% rispetto al 2008. Nel 2010 questo trend è continuato, anche se in minore misura, registrando un ulteriore calo complessivo del 55,6%. C’è però da notare che i flussi si sono spostati in maniera netta dalla Sicilia – che nel 2010 ha registrato un calo del 84,7% – verso la Calabria e la Puglia che hanno rispettivamente registrati un significativo aumento, la Calabria del 174% e la Puglia addirittura del 467%.
Per quanto invece riguarda la Grecia, Cipro e Malta, gli arrivi via mare durante il 2010 si sono ridotti del 72,5%. Secondo le nostre stime, nel 2010 il totale degli arrivi via mare in questi tre paesi è passato dai 8.800 nei primi dieci mesi del 2010 contro i 32.000 per lo stesso periodo del 2009.
Riuscire a ridurre o bloccare gli arrivi in una determinata zona non risolve però veramente il problema, perché dopo un po’ di tempo i flussi si spostano altrove. Ed è questo che sembra verificarsi attualmente per quanto riguarda l’area geografica del sud-est Europa. Basta pensare all’aumento del 415% degli arrivi via terra in Grecia, nella regione di Evros, che ha registrato 38.992 arrivi nei primi dieci mesi del 2010 contro i 7.574 per lo stesso periodo del 2009. Non è poi da escludere che la sostanziale chiusura della rotta marittima porti anche ad un incremento degli arrivi via aerea.
Per quanto riguarda il funzionamento del sistema di richiesta di asilo nei paesi del Nord Africa – Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco – va ricordato che questi rappresentano, soprattutto per i migranti provenienti dall’Africa subsahariana, paesi tanto di destinazione come di transito. Coloro che arrivano in Europa da questi paesi sono da considerare in maggioranza migranti economici, ma una parte significativa di essi (come abbiamo visto con riferimento all’Italia) è effettivamente bisognosa di protezione internazionale. Ad eccezione della Libia, gli altri quattro paesi hanno firmato la Convenzione del 1951 sullo Status di Rifugiato. In Algeria e in Marocco non esiste però una procedura di asilo statale ed è l’UNHCR che esamina le domande di asilo e riconosce lo status di rifugiato sotto il proprio Mandato. Attualmente ci sono alcuni centinaia di richiedenti asilo e rifugiati registrati presso gli uffici UNHCR ad Algeri e a Rabat. In Tunisia – a parte gli ultimi eventi drammatici e l’attuale instabilità del paese – la situazione è simile a quella dell’Algeria e del Marocco, pur se il numero dei richiedenti asilo e dei rifugiati è ancora minore. In Egitto invece l’UNHCR si occupa di un considerevole numero di persone, pari a circa 40.000, in gran parte provenienti dal Corno d’Africa e dal Sudan.
In Libia (paese che non ha firmato la Convenzione del 1951) l’UNHCR non ha uffici propri ed è costretto ad operare sotto l’ombrello della UNPD (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo). Fino a marzo 2010 l’UNHCR a Tripoli poteva, anche se con grande difficoltà, ricevere ed esaminare domande di protezione, fornire assistenza e individuare soluzioni durevoli per i rifugiati riconosciuti, aiutando cosi svariate migliaia di persone. All’inizio di giugno dell’anno scorso, però, il Ministero degli Esteri libico ha imposto all’UNHCR di chiudere l’ufficio e di sospendere tutte le attività. A seguito di alcuni incontri ad alto livello, a fine giugno del 2010 è stato possibile riaprire l’ufficio, ma le attività sono molto limitate: si possono assistere solo i rifugiati precedentemente registrati con l’UNHCR. Non è invece possibile occuparsi di nuovi richiedenti asilo; visitare i centri di detenzione dove sono internati richiedenti asilo e rifugiati; non è consentita la partenza dalla Libia, per reinsediamento, a gruppi di Eritrei che possono essere accolti da paesi che ne hanno accettato il reinsediamento; non è consentito intrattenere rapporti con le ONG e le altre organizzazioni con cui nel passato l’UNHCR cooperava per sostenere i richiedenti asilo ed i rifugiati. E i tentativi di negoziare con il Governo libico un accordo per formalizzare la presenza e consentire la nostra attività non hanno portato ancora ad alcun risultato concreto.