Non c’è dubbio che quello di Obama, in occasione della concessione del premio Nobel per la pace, è stato un discorso onesto, anche sofferto, una prova della volontà di spiegarsi davanti all’opinione pubblica mondiale. Questo non è poco …
Sgombriamo il campo da tre questioni. La prima: Obama non è un pacifista; sarà anche un "uomo di pace", ma un pacifista no. Lo sapevamo già e lui l’aveva detto fin dalla campagna elettorale. Seconda questione: il premio Nobel per la pace, conferitogli ad appena nove mesi dall’inizio della sua presidenza, è, a dir poco, una stranezza, un premio più alle intenzioni che alle realizzazioni. Anche questo Obama l’aveva ammesso con franchezza quando il premio gli è stato conferito a settembre e l’ha ribadito ieri nel suo discorso di accettazione, riconoscendo che molti altri l’hanno meritato in passato e l’avrebbero meritato anche questa volta più di lui.
La terza questione riguarda non Barack Obama, ma i signori norvegesi che attribuiscono il premio e che, anche in passato, si sono comportati in modo non del tutto condivisibile: ad esempio, attribuendo il premio Nobel a Henry Kissinger solo perché aveva negoziato la pace con il Vietnam del Nord, dopo essere stato tra i massimi responsabili di una delle più immotivate e brutali guerre della storia americana; il premio attribuito a Teddy Roosevelt (cugino e predecessore di Franklyn Delano), tra i presidenti americani più guerrafondai e sciovinisti, nelle parole e nelle azioni (la guerra ispano-americana).
Forse il premio più simile all’attuale fu quello attribuito a Woodrow Wilson, il presidente dell’entrata degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale, ma anche della Lega delle nazioni e del tentativo di espungere la guerra dalla politica internazionale. Wilson aveva forti ideali di pace ma non era un pacifista. Speriamo solo che il suo fallimento nell’assicurare la pace mondiale, con la catastrofe della seconda guerra mondiale che ne seguì, non sia di cattivo presagio per il suo attuale successore (e per tutti noi).
Messe da parte le tre questioni e le polemiche, rimane il discorso di Oslo, che è interessante e si presta a varie considerazioni non solo politiche, ma anche teoriche: sulla politica internazionale e sulla guerra.
Quanto alla prima, passo dopo passo, settimana dopo settimana, Barack Obama si sta confermando come un "cauto idealista" e un altrettanto "cauto realista". Dall’idealismo trae il rispetto per le istituzioni e il diritto internazionale, ma senza gli eccessi di volere "rendere il mondo sicuro per la democrazia" (Woodrow Wilson) e soprattutto rifiutando la dottrina della "esportazione della democrazia" del suo predecessore George W. Bush. Del realismo assume il principio cardine: l’interesse della nazione come criterio guida della politica internazionale degli Stati Uniti. L’ha detto e ripetuto più volte, ma senza spingersi fino al punto di sostenere che questo interesse deve prevalere sempre e comunque su qualunque considerazione etica o di diritto.
Obama è insomma un realista, ma non un sostenitore della Realpolitik (alla Kissinger). Con il massimo teorico del realismo, Hans Morgenthau, condivide l’idea che la politica internazionale è il regno del possibile, non del desiderabile. La prudenza e la consapevolezza dei limiti di ogni azione sono la regola di comportamento, senza di che si commettono solo guasti peggiori. Le buone intenzioni che non tengano conto della possibilità di attuarle o che vadano contro l’interesse del proprio paese, sono vacue e spesso anche dannose.
Sulla guerra Obama ha detto parole oneste e semplici che raramente si sentono da un capo di stato. Non ha parlato della guerra in astratto – fin troppo facile, e banale, sarebbe stato affermare che la guerra è una cosa brutta e la pace una cosa buona. Ha parlato della guerra in concreto – cioè della decisione da parte di uno stato di ricorrere alla forza armata nel perseguimento del proprio interesse. E qual è l’interesse primo ed essenziale di uno stato? La sicurezza contro le minacce armate esterne, per la propria incolumità e sopravvivenza.
Qui il criterio non è tanto la distinzione tra guerre giuste e guerre ingiuste, sempre difficile da stabilire dal momento che ogni stato afferma sempre che la sua è giusta e quella dell’avversario ingiusta; e neppure tra guerre legittime e guerre illegittime, dal momento che ciò che uno stato sovrano vuole è per questo soltanto legittimo. La distinzione va fatta tra guerre necessarie e guerre "di scelta" (of choice). Curiosamente qui Obama adotta il punto di vista della dottrina neoconservatrice che ha ispirato l’amministrazione del suo predecessore. La legittimità di una guerra, secondo i "neocons", non può dipendere dall’approvazione di una organizzazione internazionale, fossero anche le Nazioni Unite e il Consiglio di sicurezza, perché allora sarebbe una organizzazione sovranazionale che sottrarrebbe ad uno stato la decisione più vitale per la sua sopravvivenza, appunto la guerra.
Quindi la guerra va evitata, non vanno cioè combattute le guerre "di scelta", vale a dire quelle con le quali si intendono risolvere controversie economiche o territoriali. Ma se la guerra è necessaria per garantire la propria sicurezza e se c’è il consenso della comunità internazionale, allora va combattuta. Questo, per Obama, è il caso della guerra afgana, mentre non lo era per la guerra in Iraq. L’Afghanistan instabile e sotto il controllo dei talebani viene visto come una minaccia inaccettabile per gli Stati Uniti (evidentemente anche alla luce degli attentati dell’11 settembre 2001!). Saddam Hussein, per quanto odioso dittatore, non era una minaccia; quella contro di lui per Obama era una guerra di scelta e non andava combattuta.
Si può essere d’accordo o meno, si può discutere all’infinito su cosa costituisca una minaccia mortale per la sicurezza della nazione, ma il principio è quello. Poi resta la decisione, che qui e ora deve prendere un leader politico, di come valutare le circostanze e di quale azione intraprendere: potrà essere una decisione giusta o sbagliata, ma la deve prendere, senza di che non sarebbe un leader politico.
Obama non si è limitato a trattare il primo aspetto del diritto bellico, il "jus ad bellum", cioè il diritto di fare la guerra (secondo la famosa formulazione di Grozio). Ha affrontato il secondo aspetto, quello dello "jus in bello", il diritto nel fare la guerra, cioè nel come farla. Qui Obama è stato più chiaro e più convincente. Ha affermato senza mezzi termini che in guerra si debbono rispettare i principi di umanità e di comune moralità, specificamente le Convenzioni di Ginevra sul trattamento dei militari catturati e sulla protezione dei civili coinvolti nel conflitto. E ha impegnato, ancora una volta, come nel suo discorso di investitura a gennaio, il proprio paese a non torturare e a rispettare principi e convenzioni, legge nazionale e diritto internazionale. Ha anche ribadito la promessa (che non verrà mantenuta nei tempi prefissati) di chiudere il carcere di Guantanamo.
Non è molto e i pacifisti di tutto il mondo hanno ogni diritto di essere insoddisfatti. Come pure non convinti saranno tutti coloro (e tra questi chi scrive) che non reputano la guerra afgana "una guerra necessaria", ma una guerra di scelta, ereditata sì, ma che avrebbe dovuta essere chiusa il prima possibile. Allo stesso tempo non c’è dubbio che quello di Obama è stato un discorso onesto, anche sofferto, una prova della volontà di spiegarsi davanti all’opinione pubblica mondiale. Questo non è poco e in ogni caso rappresenta una netta presa di distanza dalla criminale superficialità con cui il suo predecessore aveva parlato della guerra e dall’arroganza unilateralista con cui l’aveva fatta.