Guido Melis: inutili le modifiche articolo 41 della Costituzione
Guido Melis: inutili le modifiche articolo 41 della Costituzione

Di seguito e in allegato il testo dell’intervento dell’On. Guido Melis sul complesso degli emendamenti presentati dal Pd al testo di riforma dell’art.41 della Costituzione.

Signor Presidente, la Costituzione è cosa troppo seria perché si possa consentire di coinvolgerla e strumentalizzarla a beneficio di scelte o non scelte politiche. Non sono parole mie ma del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, che considero un monito sempre valido per il riformatore costituzionale in tutte le epoche.
Qual è il fine di questa proposta di revisione? In particolare, qual è il fine del cuore di questa proposta che riguarda l’articolo 41 della Costituzione? Ci dite che è quello di rendere libera l’iniziativa privata, in particolare l’iniziativa di impresa, libera dai lacci e laccioli dai quali sinora sarebbe stata oppressa. Io penso al contrario che il fine sia strumentale e che sia un fine ideologico, che come tale danneggerà gravemente l’equilibrio interno della Costituzione, la sua intrinseca armonia.

Mi consenta, signor Presidente, di rifarmi all’articolo 41 della Costituzione nella sua versione vigente: è un modello di limpido stile legislativo, si apre proclamando senza ombra di ambiguità alcuna che l’iniziativa privata è libera, affermazione che nella sua laconicità adamantina non ammette alcuna interpretazione capziosa. Pone poi come unico limite l’utilità sociale, concetto al quale fa seguire quelli della sicurezza, della libertà e della dignità umana, e al terzo comma subordina solo e unicamente alla legge, ripeto, solo alla legge, l’esercizio dell’attività economica sia pubblica che privata. Non bastava questa formulazione? Io dico che bastava, non c’era nessun bisogno di modificarla, pasticciarla e in parte stravolgerla.
Si dice – l’ho letto qualche volta nella stampa della destra iperliberista – che l’utilità sociale è un criterio troppo ampio, che prefigura una zona grigia in cui la libertà economica affermata al comma principale sarebbe come vanificata dal successivo, ma nel testo che voi ci presentate – anche in quest’ultima versione rivista dal Comitato dei nove che ho avuto appena il tempo di scorrere – questo comma del vecchio articolo praticamente resta intatto, salvo l’aggiunta dei riferimenti ai principi fondamentali della Costituzione.

Avete usato più parole – che nelle Costituzioni non è mai bene – per dire la stessa cosa su quel punto. Quindi non è qui che sta, almeno in apparenza, la ragione della revisione. La ragione sta invece nel primo comma, che nella nuova formulazione più stringata uscita dal Comitato dei nove dice: «L’iniziativa e le attività economiche private sono libere».

Le parole, specie nei testi costituzionali, sono pietre, signor Presidente, e con queste nuove pietre questa maggioranza si propone di erigere in realtà un edificio molto diverso dal precedente. C’è una filosofia, c’è un’ideologia nell’aver ricercato e messo sulla carta queste nuove parole al posto delle vecchie. Non è un fatto ininfluente che si sia voluto farlo, c’è una ragione profonda. Ricorrerò all’autorità di un altro insigne costituzionalista come Onida e anche di uno sperimentato uomo di Governo, il presidente Giuliano Amato. L’altro giorno Amato, nella sala del Mappamondo qui alla Camera, analizzando con grande finezza, come è solito fare, e con grande maestria da grande giurista il vostro testo, ci ha detto che questa è una costruzione che nel suo insieme proprio non sta in piedi essendoci una pluralità di ragioni per le quali è bene che non entri in vigore. Questa formula – ha aggiunto Amato, alludendo alla precedente formula, ma calza bene anche per quest’ultima uscita dal Comitato dei nove – si colloca fuori contesto rispetto alla nostra lunghissima storia, a partire da Adam Smith.
Già, la nostra lunghissima storia: i teorici dell’economia classica. Il liberismo rivisto e corretto a vostro uso e consumo non esiste neanche nelle pagine dei classici dell’economia. Se voi leggete Smith con attenzione, come ci ha detto Amato, ma se leggete anche Ricardo e gli altri teorici del libero mercato, vi accorgerete quanto forte sia in quegli autori il vincolo dell’ispirazione etica dell’attività economica, prima e talvolta anche a costo di limitare la libertà assoluta e l’egoismo assoluto dell’imprenditore. Vedrete che in Smith, come giustamente ci ricordava Amato, senza un fondamentale sentimento di giustizia il mercato stesso in realtà non può funzionare. Del resto – continuo sul filo del ragionamento – non sarà un caso se in tutto il mondo occidentale, anche nei Paesi leader del capitalismo, si è sentito progressivamente il bisogno di istituire intorno al mercato, a tutela del mercato stesso e del suo corretto funzionamento, un sistema di regole e con esse di «inventare» autorità indipendenti e organismi pubblici che ne garantiscano il corretto funzionamento. Ma quale società liberale potrebbe mai esistere senza una tutela dei più deboli, senza l’assistenza per chi si ammala, senza una ragionevole protezione per chi lavora, senza un’opportuna vigilanza sui danni ambientali? Quale mercato potrebbe funzionare in assenza totale di regole, lasciato interamente alla legge della giungla, dove prevale il più forte?

"Tutto è permesso, salvo ciò che è espressamente vietato", avevate scritto nella formula precedente, che adesso avete cassato. Ma esiste un contesto di principi, esiste un testo complessivo della Costituzione repubblicana che va tenuto in conto, nel quale i principi nuovi devono inserirsi armoniosamente senza generare conflitto, senza contraddire quello che è scritto nel resto della Costituzione. Esiste per il legislatore costituzionale – per tutti i legislatori dovrebbe esistere per la verità, ma per quello costituzionale anche di più – un obbligo di coerenza e di rispetto dell’organicità del testo complessivo. Cosa volete dirci, imponendoci come sperate di fare a colpi di maggioranza questo nuovo testo emendato? Che abbiamo vissuto per sessant’anni in non contesto economico-sociale di socialismo reale, gestiti da ciechi burocrati del piano, impegnati a vessare i liberi imprenditori che volessero esercitare la loro libertà? Ma via colleghi, basterebbe volgersi indietro alla storia d’Italia, i cui centocinquanta anni stiamo ancora celebrando in questi giorni, per renderci conto della falsità, anzitutto in termini storiografici di questa rappresentazione. Se c’è un filo conduttore nella storia di questo Paese sin dal 1861 sta nella lunga strada compiuta, a partire dalla legislazione costituente del 1865, ancora astensionista verso qualunque forma di controllo e limitazione degli egoismi privati, passando per le prime leggi di fine Ottocento sul lavoro, sulle malattie, sull’assicurazione, fino alla provvida legislazione giolittiana del primo decennio del Novecento e poi ancora a quella coraggiosa del primo dopoguerra.

Perfino il fascismo, guardate, sia pure in nome di una concezione distorta dell’interesse nazionale, proseguì, a suo modo, in quella strada virtuosa. E nel dopoguerra, segnato dalla Costituzione repubblicana, una legislazione attenta all’equilibrio tra i diritti dei privati e la difesa dell’interesse pubblico caratterizzò gli stessi Governi centristi e democristiani, prima che il centrosinistra, negli anni Sessanta, desse avvio ad una nuova stagione di riforme e a uno sviluppo ulteriore dei diritti collettivi. Questa è la nostra storia!

Questo non significò affatto comprimere la libertà dei privati. Lo dico a quelli di voi che da giovani militavano nel Partito Socialista di Nenni e di Riccardo Lombardi, che si ricordano ancora la lezione di Ugo La Malfa. Solo una visione faziosamente deviata e di parte potrebbe sostenere che il miracolo economico degli anni Cinquanta si sia svolto nel quadro di una legislazione o, peggio, di una prescrizione costituzionale limitativa delle libertà dei privati, o che l’impresa, allora e nei decenni successivi fino ad oggi, abbia sofferto di un regime vincolistico, tale da non poter esercitare pienamente la propria iniziativa.

D’altra parte, colleghi, se ritenete che vincoli eccessivi siano stati posti e che gli interessi privati siano stati sacrificati in eccesso, possiamo anche acconsentire, in via di ipotesi, a questa analisi . Benissimo, ma allora è la legge ordinaria lo strumento idoneo a rimuoverli, a temperarli, a correggerli; non certo lo stravolgimento della Costituzione.

La Costituzione non è immodificabile, non bisogna soffrire nei suoi confronti di un complesso per il quale nulla può essere modificato, ma ha ragione l’onorevole La Malfa: se la si deve modificare, lo si deve fare tenendo conto del suo complesso, e non a pezzi e bocconi, a colpi di maggioranza, modificando ora questo ora quell’altro principio, fino a fare di un grande ed armonioso meccanismo per il governo del Paese un guazzabuglio incomprensibile di principi tra loro in conflitto.

Abbiamo voluto cambiare il Titolo V anni fa, ed è stata una significativa modificazione, anche se forse, a mio avviso, sarebbe stato meglio farlo con una maggiore unanimità del Parlamento; altre se ne possono immaginare. Personalmente, penso, per esempio, che abbia ragione Gustavo Zagrebelsky: molto si deve lavorare sulla parte che concerne l’organizzazione della macchina del Governo, che ancora soffre di una concezione da anni Quaranta. E posso anche apprezzare e ritenere utili le modifiche che voi proponete all’articolo 97 sull’attività amministrativa, anzi, le ritengo perfino poco coraggiose, sebbene sia abbastanza dubbioso sul fatto che principi come la semplificazione amministrativa debbano trovare posto tra i principi della Costituzione della Repubblica, ma diciamo che su quella parte non ho obiezioni di fondo.
Ma questo vostro articolo 41, che è il cuore del provvedimento ed è la vera ragione per cui avete presentato questo agglomerato abbastanza incoerente di revisioni su articoli che non stanno insieme, sarebbe assolutamente un corpo estraneo, un tumore maligno, che, inserito in Costituzione, recherebbe danno non solo in sé, ma per le contraddizioni che genererebbe con il resto del testo.


Confliggerebbe subito con interi settori della legislazione, con istituti ormai radicati da decenni nel nostro ordinamento. Forse, bisognerebbe riscrivere gran parte del nostro diritto del lavoro, per esempio, a confronto con questa modifica dell’articolo 41.

La formula da voi proposta, nella sua apparente banalità, dice poco e dice, al tempo stesso, troppo: contiene un veleno nascosto, contiene un implicito giudizio storico inaccettabile sul testo attuale della Costituzione, come se sino ad oggi, vigente la Costituzione del 1948, avessimo vissuto in anni di regime e di compressione della libertà economica. Non è così!
La verità è che voi mirate a quello che non dite: volete espellere, in realtà, il concetto stesso dei limiti, dei contemperamenti alla libertà dei privati, della prevalenza dell’interesse pubblico, che, colleghi, è l’interesse dei cittadini a non vedere sconvolto l’ambiente in cui vivono, ad esempio; è l’interesse dei consumatori ad essere difesi nei loro diritti; è l’interesse dello Stato a garantire che la produzione non si svolga in contrasto con fini pubblici riconosciuti.
Se noi approvassimo la vostra riforma – io mi auguro che non vi sia il tempo che essa compia l’iterprescritto – dovremmo ripensare a tutta una serie di istituti e di norme regolatrici e, forse, buttare a mare interi capitoli del nostro diritto pubblico e privato.

Scrivere un testo costituzionale – ha detto l’altro giorno alla Camera Giuliano Amato a conclusione della sua conferenza – presuppone che si sia lavorato sul preesistente. Avendo lavorato sul preesistente, si saprebbe che questa aggiunta è francamente inutile e dannosa e che può ingenerare confusione.

E mi permetto di dire, onorevoli colleghi, che in un campo delicato come quello della legislazione costituzionale, in un campo in cui è in gioco l’interesse di tutti – perché la Costituzione è la Costituzione di tutti e non di una sola parte – la confusione può generare mostri molto pericolosi per la vita democratica.

 

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