Fermate il casinò, vogliamo scendere!
Fermate il casinò, vogliamo scendere!

Lo spettacolo della crisi finanziaria sarebbe comico se non ci fosse di mezzo la vita delle persone che, attacco dopo attacco, summit dopo summit, sono chiamate a stringere la cinghia. Riflessione di Annamaria Simonazzi per www.ingenere.it.

L’estrema precarietà su cui si fonda la nostra conoscenza dell’andamento futuro delle grandezze finanziarie, scriveva Keynes nel 19361, fa sì che i sistemi finanziari si siano sviluppati sulla base di una convenzione: che cioè lo stato attuale continui indefinitamente nel futuro, a meno che non vi siano ragioni per aspettarsi un cambiamento. Essendo fondati su una base così precaria, i valori delle attività finanziarie sono soggetti a violenti cambiamenti a seguito di repentine fluttuazioni nelle opinioni, anche se dovute a ragioni che non riguardano direttamente i rendimenti futuri.

Data questa situazione, ci si potrebbe aspettare che l’esistenza di professionisti esperti, con maggiore conoscenza e ponderatezza di giudizio rispetto alla massa dei risparmiatori, agisca nel senso di correggere le fluttuazioni che il mercato, lasciato a se stesso, inevitabilmente produrrebbe. Accade tuttavia che le energie e l’abilità degli speculatori siano dirette altrove: nell’anticipare di pochi mesi (o di pochi giorni) quella che sarà la valutazione convenzionale, indipendentemente da quello che essi ritengano debba essere il valore che prevarrà nel lungo periodo. Un investitore esperto che, non influenzato dal comportamento prevalente, prendesse le sue decisioni sulla base di considerazione di redditività di lungo periodo, verrebbe inevitabilmente travolto: non c’è infatti alcuna evidenza che una politica di investimento che sia più vantaggiosa socialmente sia anche quella più profittevole.

Se l’attività “speculativa” prevale su quella di “investimento”, lo sviluppo finanziario di un paese diventa il corrispondente dell’attività di un casinò. Lo spettacolo offerto dai moderni (1936) mercati finanziari, dice Keynes, mi ha talvolta indotto a concludere che la sola soluzione possibile sia quella di rendere l’acquisto di un titolo altrettanto indissolubile del matrimonio. Ma la conseguente perdita di liquidità avrebbe l’effetto di scoraggiare enormemente l’investimento. Poiché non si può d’altra parte sperare che l’autorità monetaria possa intervenire con successo con la sola manovra del tasso di interesse, mi aspetto, concludeva Keynes, che lo Stato assumerà una sempre maggiore responsabilità nell’organizzazione diretta degli investimenti.

La storia della finanza internazionale ha conosciuto diverse fasi cicliche. Al disordine economico internazionale provocato dai movimenti speculativi di capitale fra le due guerre mondiali, di cui Keynes è stato testimone e critico, si è risposto con un periodo di regolamentazione e controlli, sia delle banche, sia dei movimenti di capitali fra paesi. Passata la paura, e perso il ricordo dei costi inflitti dalla libertà dei capitali, si è proceduto con baldanza verso la deregolamentazione più completa. Il mondo intero è così diventato un enorme casinò, in cui gli speculatori, resi potentissimi da innovazioni finanziarie che ne hanno moltiplicato per mille la leva finanziaria, hanno rilanciato la posta: il gioco ora non è più anticipare la psicologia del mercato, ma crearla.

La liberalizzazione dei movimenti di capitali è stata legittimata da una teoria economica che ha sostenuto l’ipotesi di mercati finanziari efficienti. In questo quadro, la speculazione giocherebbe un ruolo stabilizzante, in quanto svolgerebbe la funzione di vigilare a garanzia degli investitori, segnalando al mercato le tendenze di fondo dei titoli, facendo cadere i prezzi dei titoli il cui andamento prospettico non è buono, premiando gli altri. E’ questo, si dice, il ruolo precipuo delle agenzie di rating.

Ma cosa succede se gli speculatori, lungi dal comportarsi come bravi cani da guardia a tutela del risparmiatore, si comportano invece come i giocatori senza scrupoli del casinò finanziario descritto da Keynes? Consideriamo i recenti episodi di attacchi speculativi sui titoli di stato (e bancari) dei PIIGS. Si è detto che ci sono ragioni oggettive che giustificano una speculazione contro questi paesi: la Grecia ha truccato i conti, l’Irlanda non ha vigilato sulle proprie banche, l’Italia ha un governo debole e inetto, e ha varato una manovra iniqua che per giunta rimanda al futuro governo i veri tagli. Ma questi fattori non sono nuovi e ne ignorano altri. Il debito italiano, per esempio, è per 2/3 nelle mani dei risparmiatori italiani, ha una buona struttura per scadenze, le banche italiane sono meno coinvolte di quelle francesi e tedesche nel finanziamento di Grecia e Portogallo. E allora, cosa è cambiato nella valutazione prospettica di questi titoli, da giustificare i recenti attacchi? Nulla che abbia a che fare con questo, se non la percezione di una possibilità di guadagnare, facilmente e senza rischio. Con le vendite allo scoperto (i titoli vengono presi a prestito e venduti scommettendo sulla possibilità di poterli ricomprare a un prezzo più basso), testa si vince (le vendite speculative sono capaci di provocare un ribasso del prezzo), croce non si perde (l’attacco non riesce, e si ricomprano i titoli allo stesso prezzo).

 

E’ davvero scoraggiante assistere al susseguirsi dei summit delle maggiori autorità economiche dei paesi dell’euro che, annunciati con clamore, e attesi con speranza, finiscono inevitabilmente con l’accordo di rinviare al prossimo summit la risposta al dilagare della rovina finanziaria, decisa e subito messa in atto negli studi ovattati di una manciata di imprese finanziarie. Non importa analizzare qui se vi siano altri interessi che muovono questi attacchi (si parla per esempio di una lotta per la salvaguardia del predominio finanziario del dollaro contro la minaccia dell’euro). Lo spettacolo sarebbe comico se non ci fosse di mezzo la vita delle persone che, attacco dopo attacco, summit dopo summit, sono chiamate a stringere la cinghia.

 

L’ipotesi dei “mercati efficienti” minaccia di costare molto caro: è la sopravvivenza stessa del capitalismo finanziario come lo conosciamo ora che è a rischio. In fin dei conti, la regolamentazione e i controlli sulla libertà dei capitali vennero tenuti a battesimo, dopo gli eccessi che avevano portato alla Grande Depressione degli anni trenta, dalle due principali potenze finanziarie dell’epoca: quella uscente, l’Inghilterra, e quella subentrante, gli Usa; paesi che, lungi dall’aver abiurato il loro credo liberale, volevano appunto difenderlo da se stesso (di Annamaria Simonazzi per www.ingenere.it).

 

1 J. M. Keynes, La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, MacMillan, Londra 1936, cap. 12, The state of long-term expectation.

 

www.ingenere.it

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