Controcorrente: «Internet distrugge il lavoro»
Controcorrente: «Internet distrugge il lavoro»

L’analisi di Erik Brynjolfsson, professore all’Mit Sloan School of Economics: l’economia della Rete fa calare l’occupazione e impoverisce la classe media. Non è il solo a pensarlo (di Jacopo Formaioni su Rassegna.it).

Internet distrugge posti di lavoro e la classe media. E le grandi aziende guadagnano”. A dirlo non è un pazzo nemico del progresso o un pericoloso no-global, ma Erik Brynjolfsson, professore all’Mit Sloan School of Economics. Secondo Brynjolfsson, che lancia un macigno nell’acceso dibattito sulle potenzialità del web, i dati parlano chiaro: nei soli Usa dal 2000 a 2009 la produttività interna è aumentata del 2,5%, a scapito però dell’occupazione, scesa del 1,1%. Lo chiama il “grande disaccoppiamento” e lo mostra chiaramente in un grafico in cui ricchezza e occupazione prendono direzioni divergenti.

Ma Brynjolfsson non è l’unico a pensarla così. Brian Arthur, del Palo Alto Research Center, si scaglia contro quella che molti definiscono “economia autonoma”: software sempre più potenti sono in grado di gestire attività complesse facilmente e a bassi costi, garantendo alle grandi aziende guadagni altissimi. Ad essere più colpito sarebbe il settore terziario e negli ultimi anni gli esempi si sprecano, dai commessi di Blockbuster a quelli delle agenzie di viaggi: si facilita il rapporto tra produttore e cliente, abbattendo i costi a scapito dell’intermediario.

Pur non essendo tutti d’accordo con la tesi di Brynjolfsson, in molti ammettono che le tecnologie digitali polarizzino la situazione: maggiore domanda di professionalità molto semplici o molto sofisticate. E c’è anche chi è più pessimista, alzando la voce direttamente dalla Silicon Valley: secondo l’imprenditore Martin Ford, autore di “Lights in the tunnel”, negli Usa, a causa delle tecnologie informatiche moderne, sarebbero a rischio il 40% dei posti di lavoro americani, quasi 50 milioni.

E da un sostenitore del progresso tecnologico, Jaron Lanier, arrivano toni più allarmanti. Nel suo libro “Who Owns the Future?”, Lanier attacca la cosiddetta “sharing economy”, spiegando come tutti noi contribuiamo gratis a creare contenuti e valore per le piattaforme dei social network. Ma i profitti sono distribuiti come una piramide rovesciata: pochi dipendenti in basso, algoritmi che creano ricchezza a beneficio di pochi in alto. Uno degli esempi più eclatanti è quello della Kodak: 140 mila impiegati, fallita nel 2012. Instagram: 13 impiegati, acquisita nello stesso anno da Facebook per 1 miliardo di dollari. Forse c’è chi esagera e il pericolo più immediato è quello della resistenza al cambiamento e l’ostilità alla tecnologia caratteristica di movimenti che alcuni definiscono neo-luddisti.

Nel tentare di descrivere la situazione e dare qualche risposta, Brynjolfsson sostiene che l’uomo dovrà imparare a competere grazie alle macchine e non contro le macchine, evolvendosi in questa economia e utilizzando i mezzi che gli permetteranno di fare cose che neanche immaginava: saremmo dunque in una fase di transizione, in cui sta prendendo forma una nuova economia.

I dati forniti da uno studio di Mckinsey sembrano confermarlo. Nel report “Internet Matters”, stima che in Francia, negli ultimi quindici anni, il web abbia distrutto 500 mila posti di lavoro, creandone però 1,2 milioni. Sempre Mckinsey ritiene che nella maggior parte dei paesi europei l’“internet economy” rappresenti il 4-6% del Pil, riuscendo in alcuni casi a fare da traino ai settori tradizionali, ora in maggior difficoltà.

E in Italia? Il nostro paese subisce un ritardo ormai storico, secondo il recente studio di Marco Simoni, della London School of Economics. La diffusione di Internet non è ancora al passo col resto d’Europa e rappresenta solo il 2% del Pil. Ma sempre Simoni ha calcolato che negli ultimi anni il web ha contribuito a creare 700 mila nuovi posti di lavoro; una boccata d’ossigeno in questi tempi di crisi, ma se la rete fosse diffusa, sfruttata e valorizzata come in altri paesi forse darebbe risultati migliori. Il dibattito è aperto e forse non c’è una sola risposta, ma a noi non resta che navigare. Non dicono sempre che siamo un paese di navigatori?  

 

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