“La prima lezione dell’economia è la scarsità: non ci saranno mai abbastanza risorse per soddisfare tutti coloro che le desiderano. La prima lezione della politica è confutare la prima lezione dell’economia”. (Thomas Sowell)
La citazione tratta da un saggio dell’economista statunitense Thomas Sowell evidenzia tutta la complessità delle problematiche inerenti l’ordine politico ed economico. Tale complessità è ben colta dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI.
Con riguardo al profilo economico, facendo riferimento all’“ordine” – tanto nella sua dimensione esistenziale, quanto in quella domestica, ovvero in quella internazionale –, inevitabilmente operiamo un salto epistemologico che ci impedisce di considerare gli strumenti che caratterizzano una qualsiasi disciplina afferente alle scienze sociali come se fossero indifferenti alle sorti e agli strumenti di altre discipline il cui oggetto di analisi, è opportuno rilevare, è riducibile allo stesso soggetto che opera l’analisi: l’uomo stesso. È questa una particolarità delle scienze sociali, la quale fa sì che esse appaiono, e realmente sono, estremamente diverse dalle cosiddette hard sciences. Nel caso delle scienze sociali, ovvero le cosiddette soft sciences, il soggetto che agisce e che interroga i fenomeni dei quali intende scoprire il come ed il perché del loro darsi è lo stesso oggetto d’indagine al quale quei fenomeni sono riconducibili ed in ultima analisi riducibili. Dunque, riflettere sulla nozione di “ordine”, sotto il profilo economico, significa porsi in primo luogo in una dimensione transdisciplinare, in forza della quale gli strumenti di analisi di ciascuna disciplina (la cassetta degli attrezzi dello scienziato sociale) consentono di scoprire i nessi tra le problematiche che investono la politologia, l’economia, le scienze giuridiche e così via; nessi rintracciabili nella realtà integrale, individuale-relazionale ed indivisibile del soggetto agente; per dirla con un argomento tipicamente sturziano. Anche in questo caso, le questioni relative alle singole scienze appaiono riconducibili alla “ragione precipua” in forza della quale sorgono le stesse scienze sociali. In definitiva, il problema fondamentale, se non unico, di fronte al quale è posto lo scienziato sociale: rendere ragione del come e del perché delle istituzioni edificate da uomini per altri uomini, la cui genesi non riflette necessariamente le intenzioni di coloro che con le loro azioni volontarie hanno contribuito a porre in essere.
La prospettiva di Benedetto XVI, sotto il profilo economico, è sì un nuovo ordine mondiale, così come sin dagli anni Trenta del secolo scorso lo fu per i padri dell’economia sociale di mercato, i cosiddetti “ordoliberali”. Facciamo riferimento ad economisti come Walter Eucken, Alexander Rüstov, Wilhelm Röpke e a giuristi quali Franz Böhm, Hans Grossman-Dörth, Alfred Müller-Armack, solo per citare alcuni tra gli intellettuali tedeschi che ricostruirono la Germania del secondo dopoguerra, la cui visione e la cui capacità politica li condusse a porre le basi economiche, culturali ed istituzionali dell’Unione Europea insieme ai democratici cristiani tedeschi di Konrad Adenauer, italiani di Alcide De Gasperi e francesi di Robert Schuman.
In sintonia con la lezione di Pio XI, il quale nel 1931 nella Quadragesimo anno rispondeva al corporativismo fascista – ma anche alle derive corporativistiche di matrice cattolica – formulando il principio di sussidiarietà, nella versione ordoliberale si trattava, e nella riflessione di Benedetto XVI si tratta, di un’idea di ordine economico anch’esso ispirato al principio di “sussidiarietà”, con la felice esplicitazione da parte di Benedetto XVI del principio di “poliarchia”, se non si vuole cadere nella trappola neo-hobbesiana, di un Leviathan globale le cui prerogative sovrane oggi non appaiono più bilanciate, quindi limitate, neppure dalle pur deboli barriere nazionali.
In breve, Benedetto XVI, sebbene indirettamente e non necessariamente in modo intenzionale, sembrerebbe rinviare al significato di ordine e di ordinamento così come emergono dalla tradizione dell’economia sociale di mercato. Scriveva nel 1943 il padre di tale filone di pensiero, l’economista di Friburgo Eucken, insieme ai colleghi Dietze e Lampe: “L’economia deve servire agli uomini viventi e a quelli futuri e deve aiutarli per l’attuazione delle loro più importati determinazioni. Solo con le forze materiali la vita umana non può essere configurata in modo sopportabile e nessun’economia può essere basata in maniera vitale. Essa ha bisogno di un ordine giuridico garantito e di una solida base morale. Se lascia gli uomini avvizzire internamente, se lascia andare in rovina il valore della loro personalità e la loro dignità, subito ricrolleranno gli imponenti edifici costruiti con un apparato esanime”; e gli farà eco sempre nel 1943 il giurista Franz Böhm: “La conduzione di successo del metodo di gestione basato sulla politica dei prezzi presuppone un’economia dei traffici e della concorrenza sufficientemente ordinate […]. La costituzione giuridica dell’economia dei traffici deve pertanto essere riformata nel senso della proposta di Eucken, che trae le necessarie conseguenze dai risultati della ricerca sulle forme di mercato”.
È appena il caso di ricordare che sin dalla Centesimus annus paragrafo 42,“ordine” e “ordinamento”, intesi come sistema delle regole, la cornice giuridica ed istituzionale nella quale si muovono gli operatori economici, appaiono una variabile determinante per la definizione e l’apprezzamento di un dato mercato e della stessa “economia libera”.
Benedetto XVI delinea un profilo economico in forza del quale le attività economiche, al pari di qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, non si realizzano mai in uno vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all’interno di un determinato contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate ovvero trascurate e disprezzate. È eloquente quanto ha affermato Röpke su tale argomento: “l’economia di mercato non è tutto; essa deve essere sorretta da un ordinamento generale, che non solo corregga con le leggi le imperfezioni e le asprezze della libertà economica, ma assicuri all’uomo un’esistenza consona alla sua natura. E l’uomo non può realizzare compiutamente se stesso se non quando si inserisce volontariamente in una comunità alla quale si senta solidamente legato. Se così non è, egli è condannato ad un’esistenza miserabile. E lo sa”.Quando un sistema sociale nega il valore trascendente della persona umana, a partire dal diritto a nascere e a vivere, partecipando alla dimensione economica, oltre che politica e culturale (di qui anche il diritto a potersi nutrire in modo sano e soddisfacente evidenziato da Benedetto XVI), si rivela da se stesso come disumano, e merita di essere criticato. In questa prospettiva, il profilo economico della Caritas in veritate incontra il perno teorico dell’economia sociale di mercato di matrice röpkiana ovvero sturziana, ossia l’affermazione che una sana economia di mercato è sempre limitata da un ordine giuridico che la regola e da istituzioni morali, come ad esempio la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi, che interagiscono con essa e la influenzano, essendone esse stesse influenzate.
Mi si consenta di concludere, tornando alla riflessione epistemologica dalla quale sono partito. In tempi di crisi è diffusa la tendenza a cercare risposte definitive a problemi contingenti, nella convinzione che esistano ricette ultimative che impediscano l’insorgere di nuove crisi. La lezione della Caritas in veritate, da questo punto di vista, considera il presupposto anticostruttivistico, tipico anch’esso dell’economia sociale di mercato e di tutta la tradizione classico-liberale e dell’anti perfettismo cattolico, che non esistono soluzioni definitive ed ottimali proprio perché i problemi economici sono sempre contingenti, relativi, storicamente connotati; oltretutto, ogni costituzione umana riflette il dato ineludibile che al centro delle organizzazioni sociali opera la persona, un soggetto imperfetto, ignorante e fallibile, per quanto sempre perfettibile. Dunque, ecco la ragione per cui anche la crisi economica non viene interpretata come l’araldo di un “nuovo mondo” che implacabile s’imporrà sull’attuale come l’aurora di un nuovo giorno s’impone sulle tenebre del giorno ormai passato. Piuttosto, la crisi è letta come il segnale che nessun sistema è perfetto, che una metafisica del mercato è tanto dannosa all’uomo quanto lo è una metafisica statalistica, e che compito dello scienziato sociale è di operare una continua vigilanza per cogliere l’errore ovunque si annidi e superare l’ignoranza comunque si presenti. Di qui, l’invito ad allargare la ragione e a mettersi all’ascolto del reale per cogliere quel flebile segnale che ci consenta di intervenire con la conoscenza possibile (limitata e fallibile) nella rilevazione dei singoli fatti e della loro sequenza e dare a questi e alle loro concatenazioni un’interpretazione coerente con la prospettiva antropologica che da cristiani rende ragione del nostro unico interesse per le questioni sociali: promuovere la trascendente dignità della persona umana: immagine visibile del Dio invisibile.