Riutilizzare il patrimonio edile per un nuovo sviluppo
Riutilizzare il patrimonio edile per un nuovo sviluppo

Una riflessione di “Agricola” sull’edilizia. “L’impresa edile va ridisegnata, il cantiere deve assumere una nuova dimensione e anche l’operaio deve ritornare ad essere quello che era una volta: un operatore polivalente dalle mani buone: un muratore, insomma”.

Fino a qualche tempo fa, i politici che volevano darsi un tono cosmopolita stupivano i loro ascoltatori raccontando che  “quand le batiment va, tout va”.   Questa frase è nata nell’ottocento, oltre le Alpi, all’epoca di Luigi Bonaparte che è stato il primo politico europeo  a intrecciare le sue personali fortune con gli interessi  dei costruttori edili.  Alcuni giorni fa, tuttavia, l’antica locuzione è stata ripetuta da un palazzinaro italiano che, nonostante abbia trascorso gli ultimi venti anni facendo politica, non ha ancora imparato l’arte di stare zitto.  Naturalmente il Berluska – è di lui che stiamo parlando – è stato subito messo a tacere, e anche sbeffeggiato, da un paio di persone competenti che non hanno fatto fatica a precisare quanto alcuni fondamentali dell’economia siano mutati dal tempo di “Napoleon le petit“ e persino dai tempi in cui  lui metteva in piedi Milano due.

In una Italia dove l’ottanta per cento delle famiglie è proprietaria della casa in cui abita, con una miriade di abitazioni pubbliche e private senza inquilini, quote altissime di prodotto nuovo invenduto in tutte le città e lungo tutte le coste, è veramente temerario pensare all’edilizia nel ruolo classico di locomotiva dell’economia.

Questo ruolo il mattone lo ha svolto alla grande in un passato meno recente.  La storia ci ricorda la funzione ricoperta dall’edilizia all’epoca in cui l’Italia andava organizzandosi come nazione.  Il varo di Roma capitale, infatti, fu anche una grande operazione immobiliare che alimentò – ma guarda il caso – il principale filone d’inchiesta dello scandalo della Banca romana.  Se, alcuni decenni più tardi, l’Europa e il Giappone hanno potuto rimettersi in piedi velocemente dagli immani disastri provocati dall’ultimo conflitto mondiale,  lo si deve anche al fatto che milioni di uomini hanno ripreso subito a muoversi rimettendo in piedi quello che le bombe avevano raso al suolo.

Anche in Sardegna l’edilizia ha svolto questo ruolo. I più anziani tra noi ricordano ancora le migliaia e migliaia di biciclette che, negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, dal retroterra convergevano su una Cagliari da ricostruire.  Quel fenomeno enorme non è servito soltanto a limitare la disoccupazione terribile di quegli anni;  gli edili, quelle  formiche laboriose  che muovevano da Quartu, Selargius, Sestu e da tanti altri Comuni, hanno costituito anche un fenomeno sociale.  Partendo dai cantieri quei lavoratori hanno contribuito alla realizzazione delle strutture di base della nascente democrazia.  Da quei cantieri sono venuti fuori sindaci, consiglieri comunali, sindacalisti, dirigenti politici e cooperatori.  Certo, anche cooperatori, perché questa forma di associazionismo economico ha contribuito in misura rilevante a disegnare il nuovo volto della capitale dell’Isola.

L’edilizia sviluppatasi nel dopoguerra ha anche contribuito alla formazione di una nuova classe imprenditoriale, consentendo quella accumulazione  originaria che l’agricoltura non era riuscita a garantire e promuovendo un certo numero di individui da capimastri ad impresari.  Quest’ultimo fenomeno, però, oltre ad essere contenuto nel numero, è risultato anche scarso nella qualità.  Pochissimi di questi impresari hanno saputo fare il salto dall’edilizia al manifatturiero più complesso e pochi hanno capito che l’attività con la quale avevano fatto i soldi aveva perso la spinta propulsiva originaria.

Questo è il problema che vogliamo sottolineare.   L’edilizia che abbiamo conosciuto sinora, quella che ha preso l’avvio con la ricostruzione del dopoguerra e che poi ha avuto una coda negli anni del boom turistico, l’edilizia dei palazzinari insomma, non ha più ragione di esistere. Il settore da funzionale è diventato pericoloso per la società che lo ospita.  Non è un problema solo sardo o italiano: negli Stati Uniti la bolla immobiliare ha messo in crisi l’economia più potente del pianeta  e oggi, in Spagna, il prodotto edile invenduto ha rischiato di far fallire le banche, con ripercussioni catastrofiche sull’Euro e sulla Comunità Europea.

La parte più cosciente della società civile, del resto, è già da tempo in polemica col tipo di edilizia che stiamo criticando:  l’edilizia che ha determinato l’abbandono dei centri storici, si  è mangiata le periferie, ha sottratto all’agricoltura quote altissime di territorio,  ha soffocato beni archeologi e culturali ed ha massacrato senza pietà le coste del nostro Paese. L’edilizia, inoltre, più di ogni altro settore merceologico, ha favorito il diffondersi della corruzione a livello  capillare, coinvolgendo nella  pania tanta parte del mondo politico e della burocrazia. 

Anche come produttore di posti di lavoro il settore non funziona più come un tempo. La fila di biciclette e di formiche operose che abbiamo appena ricordato sono una antico ricordo.  Oggi per fare le case occorre meno gente e meno capacità professionale.  Il mestiere  è cambiato, il muratore che tirava su l’abitazione dalle fondamenta al tetto non esiste più.  Le funzioni sono state parcellizzate e nel cantiere si susseguono i cosiddetti specializzati:  ferraioli, intonacatori,  piastrellisti ed altri ancora, classificati in gran parte come lavoratori autonomi.   Tutto questo andirivieni, naturalmente, favorisce il lavoro nero  e la non osservanza delle norme di  sicurezza.

Fine dell’edilizia dunque?  Ma neppure per sogno.  L’abitare corrisponde ad una delle esigenze primarie del genere umano, allo stesso livello di importanza del nutrirsi e del ripararsi con degli indumenti.   Quella che abbiamo voluto sottolineare è l’esigenza che il settore si dia una regolata, prenda atto della situazione e fornisca alla società non prodotti tossici ma i beni di consumo appropriati.

Per l’edile di oggi, in Italia e in Sardegna, la missione è quella del recupero e della riqualificazione dell’usato e della messa in sicurezza del territorio e dei suoi abitanti. Per quanto riguarda la tutela del territorio i disastri degli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato che  intervenire dopo i cataclismi costa molto di più di quanto si spenderebbe con le opere di prevenzione.  Ma anche il recupero dell’usato  è una pratica produttiva  vantaggiosa per il cittadino e per la società.  Per far vincere il buonsenso occorre, però, sconfiggere un luogo comune, la balla colossale secondo la quale ripristinare vecchie mura costa più di costruire ex novo.  Chi fa questi calcoli lo fa in malafede perché non mette nel conto il consumo del territorio, il costo delle infrastrutture per la municipalità e il costo della mobilità per il cittadino.  

E’ certo che, per battere la lobby dei palazzinari, non bastano le prediche e non basta neppure avere ragione.   Per consentire che le centinaia di case abbandonate al degrado diventino nido per nuove famiglie, alloggi per gli studenti e per chiunque ne abbia bisogno, occorre che si muovano in tanti.  Lo Stato con apposite leggi, le Regioni e i Comuni con provvedimenti appropriati.  Debbono muoversi le banche, dimostrando di essere ancora capaci di fare il loro mestiere, e deve  muoversi l’industria delle costruzioni nel suo complesso:  l’impresa edile va ridisegnata, il cantiere deve assumere una nuova dimensione e anche l’operaio deve ritornare ad essere  quello che era una volta: un operatore polivalente dalle mani buone.  Un muratore, insomma.   

Agricola

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