Quando i lavoratori tirano fuori le aziende dalla crisi
Quando i lavoratori tirano fuori le aziende dalla crisi

Lavoratori dipendenti di aziende in crisi si costituiscono in cooperativa, rilevano l’azienda e la rilanciano nel mercato, salvando lavoro, quote di mercato e professionalità. Diverse le esperienze sostenute da Legacoop, in accordo con i sindacati dei lavoratori.

Articolo di Sara Picardo per www.rassegna.it

Tecnicamente si chiama "workers buyout". E in sostanza significa: creazione di cooperative di ex dipendenti disposti a investire tutti o parte dei loro risparmi pur di far ripartire l’azienda e non perdere il posto di lavoro. In America è molto diffusa, soprattutto grazie ai fondi pensione. In Italia, invece, negli ultimi tre anni è stata la crisi a dare un’impennata a questo tipo di operazioni. Questo anche grazie a Coopfond, il fondo creato appositamente per le cooperative di questo tipo da Legacoop.

“La settimana scorsa abbiamo inaugurato a Reggio Emilia una falegnameria, che è l’ultimo caso di workers buyout che abbiamo finanziato attraverso Coopfond – spiega Aldo Soldi, direttore generale del fondo –: è un rischio, ma anche una soddisfazione vedere un’azienda salvata dai suoi lavoratori. Perché funzioni però c’è bisogno che vengano risolti i problemi che hanno mandato in crisi la vecchia gestione. Bisogna capire se l’azienda è entrata in crisi perché non ha mercato, o se è stata mal gestita o ci sono stati in passato errori, o scelte sbagliate da parte di qualcuno”. Il resto lo fa la motivazione.

“Quando un lavoratore da dipendente diventa proprietario sente il suo ruolo trasformarsi e cambia l’approccio che prima aveva con il suo lavoro. Se questo accade e le persone ci credono veramente – spiega ancora Soldi – il salto qualitativo è notevole”. Ma quali sono le premesse perché tutto riesca, oltre alla motivazione? Un buon accordo sindacale, naturalmente. “È molto importante che il passaggio da azienda a cooperativa avvenga in modo condiviso tra tutti i lavoratori, anche quelli che scelgono di non investire nel progetto. E che i posti di lavoro persi siano reintegrati entro breve tempo.

Dopo un periodo di cassa integrazione, la cooperativa deve prendersi il compito di riassumere i lavoratori inizialmente non coinvolti nell’acquisizione”, dice Luca Chiesi, segretario della Filctem di Reggio Emilia, territorio in cui il workers buyout è molto diffuso. Nelle aziende in crisi, nel momento in cui si svolta pagina, è importante che l’accordo sindacale non si porti dietro precedenti tensioni e non crei disaccordi.“Non sempre si possono salvare tutti i posti di lavoro – aggiunge Soldi –, ma l’impegno deve essere quello di ravviare l’azienda e permettere a tutti di lavorare”.“Quando si parla di workers buyout – spiega il sindacalista della Filctem – non si parla di aziende grandi, ma di società che vanno dai 10 a 50 dipendenti. Strettamente radicate nel proprio territorio”.

E proprio il rapporto con il territorio è un altro punto di forza, imprescindibile per queste piccole realtà.“È importante che nel luogo dove insiste l’azienda si senta la necessità di non perdere posti di lavoro – racconta Soldi –, perché questo significa anche creare rapporti con le istituzioni locali, con i fornitori, con Legacoop. È uno sforzo corale, quello di passare da un’impresa privata a una collettiva. E tutti gli attori se ne devono rendere responsabili”.

Coopfond sostiene la neocooperativa in due modi: sia entrando nel capitale dell’impresa, sia attraverso un prestito alla coop stessa.“I nostri soldi non sono a fondo perduto – commenta il direttore generale di Coopfond –, ma a un tasso conveniente e di solito dopo 7 anni devono essere restituiti. Noi restiamo sempre vicini a questa iniziativa e la supportiamo in vario modo, anche aiutando nello start up e nei piani di bilancio”.

Non sono rari i casi in cui i lavoratori mettono nella cooperativa tutti i soldi che hanno: tfr, anticipo della mobilità, risparmi di amici e parenti. Un investimento importante, il cui andamento spesso dipende da fattori esterni all’azienda e va tutelato attraverso un’attenzione e un supporto costanti.“Come Cgil – spiega Chiesi – abbiamo seguito alcuni casi di workers buyout e sappiamo che spesso i problemi che assediavano la vecchia azienda tornano a proporsi e bisogna essere disposti anche a sacrificare parte del proprio stipendio, se non si vuole chiudere tutto e fallire”.

I dati, del resto, parlano chiaro: Dal 1994 al 2000 gli interventi di questo tipo deliberati da Coopfond sono stati 16. Delle imprese cooperative coinvolte, 7 sono tuttora attive, con un tasso di sopravvivenza di poco inferiore al 50 per cento. Poi è arrivata la crisi. Secondo l’ultima rilevazione di Legacoop (15 giugno 2011), dal 2008 i workers buyout presentati sono stati 24.

Di questi, solo 3 sono stati respinti, per mancanza di requisiti o condizioni di sostenibilità del progetto, 2 sono ancora in lavorazione, mentre ben 19 sono stati approvati. Di questi ultimi, 8 sono in Toscana, 6 in Emilia Romagna, 2 in Veneto, uno nelle Marche, uno nel Lazio e uno in Lombardia.“A volte capita anche che alcune aziende non ce la fanno, perché i lavoratori non sanno cosa sia una cooperativa e non riescono ad andare avanti – racconta Soldi –, ma finora grazie a Coopfond abbiamo salvato ben 400 posti di lavoro e soprattutto mestieri, visto che spesso si tratta di ditte piccole che lavorano in settori di eccellenza”.

È il caso di Art Lining, azienda che produce gli interni per cravatte di alta moda. Un segmento che difficilmente potrebbe soffrire la concorrenza cinese. Eppure, investimenti avventati della vecchia proprietà l’avevano portata alla chiusura. “Ci avevano dato per morti, ora stiamo riconquistando la fiducia passo dopo passo”, dice il suo presidente Roberto Ferrari. Dei 40 dipendenti della vecchia ditta, 11 non si sono dati per vinti.“In tre mesi – continua Ferrari – abbiamo deciso di metterci in gioco. Ognuno di noi ha investito 10.000 euro, di cui 6.000 dalla mobilità”.

Cosi sono ripartiti, anche loro con una riduzione rispetto alla vecchia attività, esternalizzando la produzione della stoffa: “Ora ci limitiamo a tagliarla e confezionarla, ma il lavoro è in crescita e andiamo avanti, un passo dopo l’altro”. Afferma Soldi: “Riuscire a salvare le straordinarie competenze di questi lavoratori, vuol dire fare un intervento a beneficio della collettività. Altrimenti, il rischio è quello di perdere definitivamente queste professionalità”. Come sarebbe capitato a Empoli se la locale Vetreria non fosse ripartita proprio lo scorso aprile. Qui i dipendenti prima di avviare il workers buyout hanno fatto una selezione interna e un’indagine di mercato.

“Visto che producono il vetro soffiato, un mestiere raro – dice Soldi –, appena messa in piedi la cooperativa si sono subito posti l’obiettivo di aprire una scuola di formazione dove si formino giovani. Un’idea vincente”. Ma l’elenco dei casi di lavoratori che salvano la propria azienda potrebbe continuare ancora. Con la modelleria D&C di Vigodarzere, nella pianura padovana, tornata a produrre stampi per le fonderie; con la tipografia senese Cooprint, che ha ripreso a fare stampe artistiche e manuali, per limitarsi ai casi più recenti. Per arrivare fino ai pionieri del settore: l’industria plastica Toscana di Scarperia, in provincia di Firenze. Loro, nel 1994, furono i primi a mettersi insieme per comprarsi I’azienda. Allora producevano sacchetti e pellicole per il pane, oggi si preparano a realizzare shopper biodegradabili con macchinari nuovi di zecca (di Sara Picardo per www.rassegna.it).

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