Pubblichiamo un’intervista a Pietro Ichino sulle norme sull’arbitrato oggetto di scontri e polemiche.
Alla nuova norma sull’arbitrato del d.d.l n. 1167-b, definitivamente approvato in senato il 5 marzo, si puo’ muovere una censura di incostituzionalita’, ma difficilmente gli imprenditori avranno interesse a usarla: molto meno costoso simulare un rapporto di lavoro autonomo, ricorrendo alle finte partite IVA
A otto anni dallo scontro tra la Cgil e il governo Berlusconi sull’articolo 18, si riaccende la polemica sulla norma dello Statuto dei Lavoratori che prevede il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti. A farla scoppiare la parte sull’arbitrato del disegno di legge delega sul lavoro, che il Senato ha approvato in via definitiva, trasformandola in norma di legge. Qual è il suo giudizio in merito?
La nuova norma sull’arbitrato è concettualmente sbagliata nella parte in cui consente l’imposizione dell’arbitrato da parte dell’impresa al lavoratore nella stipulazione del contratto individuale. Ma non mi sembra il caso di gridare “al lupo!”, perché questa norma non farà alcun danno. Sono pronto a scommettere che non avrà alcuna diffusione apprezzabile.
L’opposizione e la Cgil dicono che sia un attacco all’articolo 18; la tesi è stata respinta con forza dal ministro Maurizio Sacconi, convinto si tratti dell’”ennesima prova della malafede di chi vuole sempre accendere la tensione sociale”. Secondo lei chi ha ragione e quali sono i difetti della norma? Perché secondo lei la nuova norma non farà danno?
Perché la norma stessa affida alla contrattazione collettiva il compito di mettere i “paletti” necessari. E anche nelle zone marginali dove non si applicherà alcun contratto collettivo gli imprenditori spregiudicati o disonesti non avranno interesse a utilizzarla: la norma è troppo astrusa, disseminata di trappole procedurali, quindi anche costosa, per poter avere un’applicazione diffusa. Quaranta commi, illeggibili anche per i giuslavoristi esperti! Per eludere le protezioni, il piccolo imprenditore ha uno strumento molto più facile e meno costoso: far “aprire la partita Iva” al lavoratore, fingendo un rapporto di lavoro autonomo.
C’è chi dice che l’articolato potrebbe non essere firmato dal Presidente della Repubblica. Il ddl è incostituzionale?
A questa norma si può muovere una censura di incostituzionalità, per l’aspetto di cui si è detto (articolo 31). Un’altra, di segno opposto, per un aspetto che pochi hanno notato: la norma che consente al giudice di ergersi a interprete unico dell’“interesse oggettivo dell’impresa” (articolo 30, terzo comma). Questa disposizione contraddice platealmente il principio costituzionale della libertà di impresa e spalanca vasti spazi al protagonismo dei giudici del lavoro, nel controllo del giustificato motivo di licenziamento o di trasferimento dei lavoratori.
Come è possibile ridisciplinare una materia così delicata, come l’arbitrato e i licenziamenti, senza polemiche e ostracismo da parte della politica e dei sindacati?
Qui sta l’errore grave del Governo: aver preteso ancora una volta di interferire pesantemente sul sistema di relazioni industriali, aggiungendo questi 50 articoli caotici, illeggibili, intrusivi, alle migliaia di articoli di legge che già pretendono di regolare i rapporti di lavoro (e non ci riescono). Il sistema ha bisogno di una grande semplificazione della disciplina legislativa, che le consenta di avere un’applicazione davvero universale, e al tempo stesso restituisca alla contrattazione collettiva il ruolo che le è proprio e che oggi è troppo compresso. Su questo hanno perfettamente ragione Angeletti e Bonanni.
Sta alludendo al suo progetto per un nuovo codice del lavoro semplificato?
Beh, sì: il disegno di legge n. 1873 che ho presentato con altri 55 senatori mostra che sarebbe possibilissimo, oggi, ridurre l’intero ordinamento del lavoro a 70 articoli chiari, semplici, comprensibili per i milioni di persone a cui sono destinati. E traducibili in inglese, per rendere più appetibile il nostro Paese agli investitori stranieri.
C’è chi dice che il Governo ha usato impropriamente il nome del professor Marco Biagi a proposito di questa nuova legge. È così?
Sì: Marco non sarebbe mai caduto negli errori tecnici gravi di questa nuova norma sull’arbitrato. È vero che nel suo progetto c’era anche la promozione dell’arbitrato, in funzione di un decongestionamento del contenzioso giudiziale: questo è un obiettivo giustissimo che anche il PD intende perseguire. Ma si poteva e doveva perseguirlo facendo degli arbitri la “voce del contratto collettivo”, con competenza piena sulle materie disciplinate esclusivamente dal contratto collettivo stesso. Non ho capito perché la maggioranza ha respinto il nostro emendamento che proponeva questa vera e propria rivoluzione, e ha voluto invece ampliare l’area dell’arbitrato nella direzione sbagliata.
Quali sono a suo parere le riforme del lavoro di cui ha bisogno il Paese?
La semplificazione di cui ho detto prima, cui è dedicato il mio disegno di legge n. 1873. E il superamento del dualismo del mercato del lavoro nel segno della flexsecurity: tutti (o quasi) i nuovi assunti a tempo indeterminato, tutti protetti contro le discriminazioni, ma nessuno inamovibile. Con un robusto sostegno del reddito e servizio di assistenza nel mercato per tutti coloro che perdono il posto per ragioni economiche od organizzative.
Per i dettagli rinvio al mio sito: www.pietroichino.it.
Intervista a cura di Gianmaria Pica, pubblicata su Il Riformista del 16 marzo 2010