C’è la crisi, qui si investe. Come la Finlandia è diventata un caso di successo. Che dimostra il potente effetto anticiclico della spese per l’istruzione. Mentre da noi i tagli di Gelmini si abbattono su scuola, università e ricerca.
Vogliamo raccontare una storia, la vogliamo raccontare al ministro Gelmini e tutti quelli che pensano che tagli e liberalizzazioni siano le uniche ricette buone per uscire da una crisi. Si tratta ovviamente di una storia a lieto fine che, come molte di quelle raccontate in questi ultimi tempi, ha inizio con la caduta del Muro di Berlino.
Siamo in Finlandia e il nostro cantastorie è l’ufficio nazionale di statistica.
Abbiamo detto che è appena caduto il Muro e con lui il più importante partner commerciale del paese baltico, l’Unione Sovietica. L’economia subisce una tremenda battuta d’arresto (Figura 1, PIL in milioni di euro, Finlandia 1985-2007, prezzi costanti 2007, fonte: Eurostat; e Figura 2, Tasso di disoccupazione, Finlandia 1988 – 2008, fonte: Eurostat). Il tasso di disoccupazione arriva a toccare il 17% della forza lavoro (Fonte Eurostat) e il prodotto interno crolla di quasi 40 punti percentuali tra il ‘90 e il ‘93. L’economia è fortemente centralizzata e la forza lavoro è fortemente protetta e sindacalizzata.
Facciamo ora un salto in avanti di 10 anni e senza cambiare coordinate geografiche ci troviamo in uno dei paesi più competitivi del mondo (Global Economic Forum – Global Competitiveness Report), in cui si è riusciti a coniugare una crescita media del PIL di oltre il 3.5% annuo tra il 1997 e il 2007 (Eurostat) ad una forte attenzione agli impatti ambientali che una crescita così sostenuta può comportare: l’Environmental Performance index elaborato dall’Università di Yale posiziona la Finlandia al 4° posto.
Cosa è successo in questi 10 anni? Probabilmente i politici finlandesi hanno seguito le ricette dell’ortodossia neoliberista tanto in voga negli anni ’90 (esempio su tutti l’OECD Job Studies del 1994): liberalizzazione del mercato del lavoro, decentramento della contrattazione, generalizzato taglio della spesa pubblica in particolare quella destinata alla protezione sociale (così pericolosa per la produttività perché rende tutti i lavoratori terribilmente pigri). Per niente. I policy makers finlandesi hanno deciso di andare controcorrente: hanno preferito adottare una ben focalizzata politica industriale aumentando gli investimenti in R&S (Figura 3, Investimento pubblico in R&S in percentuale del PIL, Finlandia 1985-2007, fonte: Eurostat) e in formazione, specialmente a livello universitario, compensando così i costi in termini di disoccupazione – tuttora piuttosto elevata – con i benefici generati da tassi di crescita, consentendo di mantenere un elevato livello di protezione e tutele sociali per le fasce deboli. Le statistiche dell’Istituto KELA (un’istituzione pubblica in carico di erogare diverse tipologie di sussidi a diverse categorie di utenti) ci dicono che, esattamente in corrispondenza del periodo di maggiore affanno economico, gli aiuti pubblici agli studenti universitari hanno raggiunto un picco (Figura 4, Supporto finanziario all’istruzione universitaria in percentuale rispetto al PIL, Finlandia 1985-2007, prezzi costanti 2007, fonte: Elaborazione degli autori su dati Kela ed Eurostat).
Questa storia palesa il potente effetto anticiclico della spesa per istruzione. Tra i fattori strategici che sospingono la crescita di lungo periodo dell’economia vi sono senz’altro la formazione e le politiche per la ricerca e l’innovazione. In particolare le famiglie più colpite dalla crisi possono incontrare difficoltà a finanziare l’investimento in quel tipo di capitale umano che gli economisti chiamano generale (prevalentemente istruzione universitaria), ovvero slegato dalle specificità tecnologiche ed organizzative di una data impresa ma più adattabile a nuovi contesti. Una vasta letteratura economica mostra come gli investimenti in capitale umano generale e universitario, aumentando le capacità di apprendimento, possano favorire l’adozione di nuove tecnologie e, al contempo, ridurre il rischio di disoccupazione dovuta a skill mismatches (ovvero a un cattivo incontro tra qualifiche richieste dalle imprese e quelle offerte dalla forza lavoro).
L’opportunità di sostenere l’accumulazione di capitale umano generale durante le fasi di recessione sembra dunque costituire un pilastro di quelle politiche strutturali necessarie a mantenere o ad incrementare le capacità innovative di un sistema.
L’articolo sintetizza il lavoro pubblicato in: Segre E. e F. Vona, "Investimento in Capitale Umano per favorire il superamento della crisi: l’esperienza finlandese", in R. Pizzuti (a cura di) Rapporto sullo Stato Sociale 2010, Academia Universa Press.