Limiti, inefficienze e contraddizioni del Governo
Limiti, inefficienze e contraddizioni del Governo

Limiti, inefficienze e contraddizioni delle politiche sociali del governo, di Antonio Misiani. Il ridimensionamento dei fondi per le politiche sociali indebolisce la rete di welfare proprio quando sarebbe necessario un suo rafforzamento. Fonte: www.nens.it

Limiti, inefficienze e contraddizioni delle politiche sociali del governo, di Antonio Misiani

Premessa: una situazione sociale in via di peggioramento

 

In Italia, secondo gli ultimi dati ISTAT relativi al 2007, si trovano in condizioni di “povertà relativa” 2 milioni e 653 mila famiglie (l’11,1% delle famiglie residenti), corrispondenti a 7 milioni 542 mila individui (il 12,8% dell’intera popolazione). L’incidenza della povertà relativa è stimata sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà) che individua il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi.

Sempre secondo l’ISTAT nel 2007 vivevano in condizioni di “povertà assoluta” 975 mila famiglie (il 4,1% delle famiglie residenti), pari a 2 milioni e 427 mila individui (il 4,1% della popolazione).

La soglia di povertà assoluta corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi considerati essenziali a conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. A differenza di quanto avviene per la povertà relativa, la soglia di povertà assoluta varia non solo rispetto all’ampiezza familiare, ma anche per tipo di famiglia, zona di residenza, numero ed età dei componenti.

 

Come evidenziato da Andrea Brandolini (Servizio Studi Banca d’Italia) in una recente audizione alla Commissione lavoro del Senato, questo livello di povertà e di disuguaglianza dei redditi familiari è, in un confronto internazionale, elevato e ben superiore a quello dei Paesi nordici e dell’Europa continentale, in linea con quello degli altri Paesi mediterranei e dei Paesi di lingua inglese. Secondo i dati calcolati da Eurostat (con metodologie differenti da quelle ISTAT) l’Italia, dopo la Lettonia e insieme alla Grecia e alla Spagna ha la maggiore percentuale di persone a rischio di povertà in Europa: il 20% nel 2007, a fronte del 16% della media Ue-27. L’OCSE, nel rapporto Growing unequal pubblicato pochi mesi fa, ha evidenziato come tra i 30 Paesi avanzati l’Italia abbia il sesto più grande gap tra ricchi e poveri.

 

I numeri della povertà italiana descrivono dunque una situazione preoccupante, destinata a peggiorare a causa della gravissima crisi economica che stiamo attraversando. Secondo le previsioni dei principali organismi internazionali (da ultimo il FMI) la disoccupazione nel 2010 in Italia tornerà a due cifre: non accadeva dal 2000. Rispetto all’ultimo anno di crescita economica (il 2007, con la disoccupazione al 6,1%), nel 2010 vi sarà circa 1 milione di disoccupati in più, buona parte dei quali – non coperti dagli ammortizzatori sociali – andranno ad ingrossare le file dei poveri italiani.

 

Le statistiche sulla povertà, pur nella loro freddezza, spiegano molti aspetti della contraddittoria realtà sociale del nostro Paese. Dietro il dato medio – e la sua relativa stabilità negli anni più recenti – si nascondono infatti i forti squilibri e le dinamiche redistributive orizzontali che hanno portato la Commissione di indagine sull’esclusione sociale a parlare di un “modello italiano di povertà”:

  • l’incidenza più che doppia della povertà nel Mezzogiorno descrive un Paese che continua ad essere spaccato in due;
  • la difficile condizione delle famiglie numerose, delle coppie con due o più figli e delle famiglie monogenitoriali ci dice quanto sia sempre più in salita, in Italia, creare una famiglia e diventare genitori, o essere una donna sola con uno o più figli a carico;
  • il peggioramento della situazione dei giovani tra i 18 e i 34 anni e delle famiglie il cui capofamiglia è un giovane ci racconta – al di là delle battute sui “bamboccioni” – le disparità intergenerazionali di un Paese che per troppi anni ha scaricato sulle nuove generazioni i propri problemi economici e sociali;
  • l’aumento dei working poors, i “lavoratori poveri”, evidenzia i problemi aperti in un mercato del lavoro sempre più flessibile, in cui avere un’occupazione non assicura più, come un tempo, stabilità economica e una dignitosa prospettiva di vita.

L’Italia affronta la crisi con la rete di protezione contro la povertà più fragile tra i Paesi dell’Unione Europea. Per contrastare l’esclusione sociale il nostro Paese spende infatti pochissimo: con 13 euro pro-capite (dati Eurostat), contro i 79,5 euro pro-capite dell’Ue-27 e le punte di 518,5 euro nei Paesi Bassi, 272,6 in Lussemburgo e 247,7 in Danimarca, in Europa siamo terz’ultimi dopo la Lettonia e l’Estonia.

L’Italia è l’unica nazione europea, insieme a Grecia e Ungheria, priva di un sistema nazionale di reddito minimo garantito a favore di tutti i poveri. Avevamo iniziato nel 1998 (Governo Prodi) a sperimentare il Reddito Minimo di Inserimento, ma nel 2003 (Governo Berlusconi) questa innovazione è stata bruscamente interrotta. La riforma del titolo V della Costituzione ha nel frattempo modificato la ripartizione delle funzioni, attribuendo all’esclusiva competenza regionale le politiche sociali (comprese quelle di contrasto alla povertà attraverso forme di “reddito minimo di inserimento” o di “reddito di cittadinanza”) e lasciando in capo allo Stato centrale la definizione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) e le politiche redistributive di tipo fiscale e pensionistico.

 

Questa assenza di strumenti specifici di contrasto della povertà si riflette puntualmente sui dati che misurano l’efficacia del welfare nella riduzione delle disuguaglianze. Secondo Eurostat in Italia, prima dei trasferimenti sociali, sono a rischio di povertà il 24% dei cittadini. Dopo i trasferimenti, questa percentuale scende al 20%. I corrispondenti dati della Ue-27 sono impressionanti: 25% di persone a rischio di povertà prima dei trasferimenti (più dell’Italia), 16% dopo. Nove punti in meno in Europa, solo quattro in Italia.

 

La necessità di una riforma organica e le scelte del Governo

                  

I limiti del welfare italiano e l’aggravamento della situazione sociale per effetto della recessione economica renderebbero quanto mai urgente una riforma strutturale delle politiche di contrasto della povertà, intervenendo – come ci ricorda la Commissione di indagine sull’esclusione sociale – attraverso la leva fiscale, i trasferimenti monetari, le politiche pensionistiche e di sicurezza sociale, l’offerta di servizi, misure di carattere universalistico o “selettivamente universalistico”, riforme del mercato del lavoro.

 

Tra il 2006 e il 2008 questo processo era stato avviato, con il potenziamento degli assegni familiari e l’alleggerimento dei carichi Irpef per le famiglie con figli; la sperimentazione di un bonus per gli incapienti; l’introduzione della 14° mensilità per le pensioni più basse; il rafforzamento dell’indennità di disoccupazione; le detrazioni fiscali per chi vive in affitto; la previsione di una serie di stanziamenti per interventi di carattere sociale.

 

Con la nuova legislatura le scelte del Governo Berlusconi hanno segnato un deciso cambio di rotta. Con i decreti-legge 112/2008 e 185/2008 sono stati introdotti due nuovi strumenti di aiuto economico nei confronti delle fasce sociali più deboli:

  • la carta acquisti, introdotta dall’art. 81, comma 29 e seguenti, del DL 112/2008
  • il bonus famiglie, previsto dall’art. 1 del DL 185/2008

mentre con la manovra finanziaria estiva (DL 112/2008) e la Legge finanziaria 2009 sono stati drasticamente tagliati gli stanziamenti destinati ad una serie di interventi sociali.

 

Il flop della carta acquisti e del bonus famiglie

 

La carta acquisti (meglio conosciuta come social card), una carta di pagamento elettronico con 40 euro mensili a carico dello Stato, nelle previsioni del Governo era destinata ad 1 milione e 300 mila beneficiari: anziani over-65enni (1 milione) e famiglie con figli sotto i tre anni (300 mila), selezionati in base ad una serie di requisiti reddituali e patrimoniali. Per finanziare l’operazione, il Governo ha individuato le seguenti risorse (riepilogate nel Decreto interdipartimentale del 27 febbraio 2009):

  • 170 milioni di fondi statali (anno 2008);
  • 200 milioni (100 per il 2008 e altrettanti per il 2009) donati dall’ENI;
  • 50 milioni (25 per il 2008 e altrettanti per il 2009) donati dall’ENEL;
  • 485,6 milioni derivanti dal recupero degli aiuti di Stato di cui alla decisione della Commissione europea del 16 luglio 2008.

In totale, 295 milioni per il 2008 (170 statali e 125 privati) e 610,6 milioni (485,6 statali e 125 privati) nel 2009.

A conti fatti l’operazione social card si è rivelata un flop. Al 26 marzo 2009, secondo i dati resi noti dalla trasmissione televisiva Report, le domande effettivamente pervenute sono state 700 mila, mentre sono state attivate 517 mila carte (il 60% in meno di quanto inizialmente annunciato), con una distribuzione territoriale delle carte fortemente sperequata (secondo quanto riportato da La Repubblica, 1 tessera ogni 52,7 abitanti in Sicilia a fronte di 1 ogni 897,7 in Trentino). Nel 2009 le risorse erogate attraverso la carta acquisti saranno dunque pari a circa 250 milioni di euro, notevolmente inferiori a quanto ipotizzato in partenza. In compenso, i costi amministrativi e di gestione sembrerebbero piuttosto rilevanti: circa 21 milioni di euro secondo quanto stimato da Report, pari a ben l’8,4% dei fondi effettivamente impiegati (quantificazione smentita seccamente dal Ministro Sacconi nel corso del question time della Camera del 22 aprile 2009). 

 

Il bonus straordinario per le famiglie – valido solo per il 2009 – consiste in una somma variabile dai 200 a 1.000 euro a seconda di una serie di requisiti legati al numero dei componenti il nucleo familiare, agli eventuali componenti portatori di handicap e al reddito complessivo familiare riferiti all’anno d’imposta 2007 o, in alternativa, al periodo d’imposta 2008. Secondo i dati riportati nella Relazione Tecnica del DL 185/2008 il numero dei beneficiari potenziali e della spesa relativa avrebbe dovuto avere la seguente distribuzione:

 

Distribuzione dei componenti per famiglia fiscale (limite di reddito)

Numero aventi diritto

Importo beneficio (€)

Importo totale (mil. €)

Pensionati in famiglie monocomponenti (fino a 15.000 €)

3.546.914

200

709,4

Famiglie con 2 componenti (fino a 17.000 €)

2.956.616

300

887,0

Famiglie con 3 componenti (fino a 17.000 €)

627.203

450

282,2

Famiglie con 4 componenti (fino a 20.000 €)

569.365

500

284,7

Famiglie con 5 componenti (fino a 20.000 €)

158.458

600

95,1

Famiglie con oltre 5 componenti (fino a 22.000 €)

52.223

1.000

52,2

Famiglie con componenti portatori di handicap (fino a 35.000 €)

88.374

1.000

88,4

Totali

7.999.153

 

2.399,0

 

Le famiglie con 3 o più componenti e quelle con componenti portatori di handicap, a maggiore rischio di povertà, rappresentano una minoranza degli aventi diritto: 1.495.623 secondo la Relazione Tecnica del Governo, pari al 18,7% del totale. Ben 3.546.914 beneficiari (il 44,3% del totale) sono costituiti da pensionati in famiglie monocomponente: più che di bonus famiglie, bisognerebbe dunque parlare di bonus pensionati single (fatta eccezione per i disabili che vivono da soli, ingiustamente penalizzati dai requisiti di accesso).

Come evidenziato dal quotidiano Avvenire, lo squilibrio nei soggetti bene­ficiari del bonus è legato ad una parametrazione dei requisiti di reddito annuo nettamente difforme rispetto alle corrispondenti soglie di povertà relativa.

 

Anche nel caso del bonus, i beneficiari effettivi pare siano di molto inferiori rispetto alle previsioni iniziali: secondo una stima preliminare resa nota dal coordinamento della consulta nazionale dei CAF della CISL le domande raccolte ammonterebbero a circa 2,9 milioni, una cifra nettamente inferiore agli 8 milioni di aventi diritto ipotizzati dal Governo. Se così fosse, le risorse effettivamente spese con il bonus sarebbero pari a circa 900 milioni di euro, anziché i 2,4 miliardi inizialmente previsti.

 

Complessivamente, sia la carta acquisti che il bonus famiglie si sono rivelati strumenti nettamente al di sotto delle necessità per quanto riguarda il contrasto della povertà e delle disuguaglianze. Secondo Avvenire, i difetti delle due operazioni sono derivati da:

·        la mancata focalizzazione degli aiuti sulle famiglie con figli, nonostante queste siano più a rischio di povertà di altre categorie;

·        il vantaggio offerto alle convivenze rispetto alle coppie sposate, dato che le prime possono non sommare i redditi dei due genitori e comporre con i figli due nuclei come meglio credono, per ottenere due bonus;

·        la penalizzazione dei disabili che vivono da soli, che di fatto non contano ai fini del bonus, e degli invalidi con assegno, esclusi dalla social card.

Una parte piuttosto ampia di popolazione povera è rimasta inoltre esclusa dal bonus e/o dalla card per via di alcuni requisiti di accesso richiesti, con particolare riferimento all’età.

 

I tagli ai fondi per le politiche sociali

 

Contemporaneamente al lancio con grande battage pubblicitario della carta acquisti e del bonus famiglie (quest’ultimo, peraltro, una misura una-tantum), il Governo ha attuato un drastico taglio di una serie di risorse stanziate per interventi di carattere sociale. Nel complesso, la riduzione prevista è pari a -21,8% (-694 milioni nel 2009) e arriva a -55,9% (-1.777,5 milioni) nel 2011.

 

Fondi politiche sociali (mil.

 

pr2008

pr2009

pr2010

pr2011

Fondo nazionale politiche sociali

L 328/2000 Art. 20 co. 8

1.581,6

1.311,6

1.030,0

920,6

Fondo nazionale servizio civile

L 230 del 1998 Art. 19

299,6

171,4

171,3

127,0

Fondo politiche per la famiglia

DL 223/2006 Art. 19 co. 1

346,5

186,6

186,4

138,2

Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione

L 431/1998 Art. 11 co. 1

205,6

161,8

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